Villa Roth: musica, birra e… finestre rotte
Ciò che è emerso, udite udite, è che all’interno dell’occupazione venivano organizzati aperitivi e concerti; ragione per la quale le persone coinvolte sono state indagate per “occupazione abusiva a scopo di profitto”, giacché i poliziotti hanno registrato frasi come “Allora la spesa sono 195 euro”; “E in più Campari e Sambuca”; “Ah, e un whisky, giusto per averlo se a qualcuno gli viene lo schiribizzo”; oppure “Io contatterei gli Assalti Frontali”; o “Facciamo i 99 Posse”. La restituzione alla città di uno spazio abbandonato, usato (anche) per far circolare musica e divertimento a prezzi popolari per l’autofinanziamento politico, viene descritta dai gip come appropriazione privata a scopo di lucro.
Da un certo punto di vista, nulla di cui meravigliarsi: i diversi convegni organizzati recentemente a Torino e in Val Susa sul diritto alla resistenza hanno contribuito ad acclarare, se ce ne fosse stato bisogno, che la strategia principale della magistratura contemporanea è (in Italia come altrove) sottrarre ogni qualifica politica, sociale o ideale ai comportamenti umani, riconducendo qualsiasi addebito al profilo tecnico del reato “comune”. Ricordate il discorso di Gian Maria Volonté in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, quando da capo della sezione omicidi va a dirigere l’ufficio politico? I reati di sfruttamento della prostituzione e resistenza a pubblico ufficiale, bancarotta fraudolenta e associazione sovversiva, aggressione sessuale e occupazione di università o del liceo sono messi grottescamente sullo stesso piano, allo scopo di annullare ogni retroterra sociale e di classe delle infrazioni del codice penale.
Lo stato deve continuamente avanzare la pretesa di essere un’entità fondata su un contratto sociale, sottoscritto (chissà come e quando) da individui liberi posti (chissà come e da chi) sullo stesso piano, il cui comune interesse al rispetto delle leggi sarebbe, di conseguenza, la tutela di una indifferenziata “sicurezza” individuale. Niente di più improbabile, e lo stato appare invece un ente sovrastante la società, un’organizzazione da essa separata, agente sul resto della realtà sociale secondo una direzione verticale e tutt’altro che imparziale nella risoluzione dei conflitti tra le classi; e il moderno sviluppo di istituzioni in grado di penetrare i più intimi recessi del mondo delle relazioni umane non costituisce un’obiezione a questo stato di cose, ma ne è la conferma, segnalando l’esigenza, da parte di questo corpo politico, di radicarsi fuori da sé, in uno spazio ad esso esterno. La rimozione giudiziaria del contesto dell’infrazione penale ha quindi lo scopo di contribuire a questa mistificazione ideologica, giacché la contestualizzazione sociale di un illecito è ciò che smaschera continuamente la vera natura del sistema istituzionale.
Niente di nuovo, quindi? A ben vedere, a Villa Roth c’è anche dell’altro. L’attività moderna di repressione tende, anche in Europa, ad adeguarsi al solco tracciato dalla città di New York negli anni Novanta, sotto l’egida della “Tolleranza zero” del sindaco-sceriffo Rudolph Giuliani. La concezione sociologica che vi fece da sfondo fu quella cosiddetta della “Broken Windows Theory” (teoria delle finestre rotte), propugnata fin dal 1982 dai professori James Q. Wilson e George L. Kelling. Secondo questa teoria la difficoltà dello stato nel reprimere il crimine diffuso era dovuta all’idea scorretta che l’illegalità andasse stroncata partendo dai livelli alti, ad esempio indagando e arrestando i grandi capi della malavita; in realtà, argomentavano i due sociologi, morto un boss se ne fa un altro, e ci sarà sempre ricambio malavitoso finché esisteranno migliaia di piccole carriere criminali, e l’attitudine al delitto permeerà le strade incontrollate della metropoli.
Il crimine, dicevano, va combattuto dal basso: occorre azzerare la tolleranza per le piccole infrazioni, perché esse creano il clima sociale e il sostrato economico illegale che conduce alle grandi organizzazioni o ai grandi disordini. Sbaglia – scrivevano – il poliziotto che, di fronte a un edificio abbandonato le cui finestre sono state rotte, fa spallucce perché ha ben altro a cui pensare: la vista di quell’atto di vandalismo, infatti, lascerà pensare che il territorio è fuori controllo, e allora ben presto “qualcuno entrerà nello stabile e, se è vuoto, lo occuperà per abitarci”, scrivevano i due professori. Le piccole infrazioni producono un incremento graduale dell’illegalità, che finisce per essere il carburante di sé stessa. Il rispetto della legge, al contrario, si diffonderebbe soltanto grazie al clima di frustrazione e paura provocato da pignoli interventi sulle piccole cose, che tolgono la speranza nella popolazione che vi sia spazio per comportamenti scelti in autonomia dal dettato giuridico. (E non poche sono le interessanti ricadute che una simile teoria ha sulla concezione estetica della città e sulla funzione disciplinare del decoro urbano).
Ciò che questa concezione ha prodotto nella città di New York è noto: anni di guerra civile latente in seguito alla procedura “stop, question, and frisk” (ferma, interroga e perquisisci) con centinaia di operazioni di polizia molto violente, condotte contro la parte povera della popolazione, soprattutto nera, che causò migliaia di vittime tra morti, feriti e imprigionati, per rendere possibile la speculazione immobiliare su quartieri come Crown Highs, il Lower East Side o Harlem. L’apparente nonsenso delle accuse ridicole verso i compagni di Villa Roth, indagati per un po’ di musica e qualche birra (se le associamo ad analoghi processi talvolta surreali, celebrati, non soltanto nei tribunali di provincia, negli ultimi anni), lascia emergere la tendenza delle procure nostrane a perseguire anche reati che fino a pochi anni fa sarebbero stati considerati secondari nei criteri di “politica criminale” della magistratura.
Pur nell’enorme differenza di longitudine, storia e cultura, non si tratta di un caso, ma è una tendenza alla tolleranza zero che ha lo stesso significato di quella statunitense: anziché fronteggiare l’incendio domani, meglio sterilizzare la città oggi, anche a costo di occupare tempo e denaro nella persecuzione di qualche aperitivo; chi più spende, in prospettiva, meno spende: oggi vale anche per lo stato. Questo significa che nei prossimi anni ci aspetta una sfida esiziale: custodire con amore anche e soprattutto l’infrazione consueta, minima e in qualche modo quotidiana delle regole esistenti, contrapponendo alla persecuzione delle piccole impertinenti libertà la loro moltiplicazione. Gli incendi, con o senza finestre rotte, arriveranno comunque; ma senza l’esistenza di una cultura della liberazione che soltanto i vissuti reali e concreti del quotidiano possono far germogliare (sedimentandone anche le pratiche organizzative), correrebbero il rischio di ridursi a drammatici e impotenti fuochi di paglia.
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