A Diyarbakir tra conti e bilanci
Tempo di conti e di bilanci, anche politici, nell’ atmosfera sospesa di una città che sa che le elezioni di domenica rappresenteranno uno spartiacque cruciale che marcherà, nel bene e nel male, un cambiamento di fase importante.
A volte la disperazione si mischia alla rabbia: “Durante il coprifuoco c’è un vicino che è andato semplicemente a dar da mangiare ai piccioni sul tetto di casa, i cecchini l’hanno ammazzato cosi”. Vista da questa casa diroccata la dichiarazione di auto-difesa dei quartieri appare come un processo doloroso quanto obbligato. Una famiglia, arrivata qui dopo essere stata forzata a lasciare il proprio villaggio di origine in una delle tante operazioni di pulizia etnica contro il popolo kurdo dell’inizio degli anni 90, testimonia le difficoltà ad andare a lavorare perdendo le magre fonti di reddito. Dai proiettili sul muro traspare una sola cosa: c’è voglia di pace. “Non ci potrà essere pace senza guerra, è impossibile parlare di pace senza combattere”, Nuyin, 17 anni, sembra avere le idee molto chiare su questo. “Il problema è che dobbiamo risolvere anche i problemi tra noi kurdi. Se tutti fossero dietro le decisioni del KCK ci sarebbero meno violenze e meno caos invece tanti hanno paura” aggiunge Fadime, una sua coetanea.
Esiste sicuramente una difficoltà a sostenere l’aggressione militare del governo turco in città per un popolo che ha sempre fatta sua la guerriglia di montagna e che cerca in tutti i modi di evitare la guerra civile. “Se il PKK fosse intervenuto direttamente nelle città per rispondere all’attacco delle truppe turche, Erdogan avrebbe avuto la scusa per fare un vero massacro” dice Alper. “Difficile dire se fosse troppo presto per dichiarare l’auto-governo, il Rojava ci ha mostrato che bisogna sapere cogliere le situazioni di caos perché altrimenti poi spesso è troppo tardi ma li è dal 2003 che si lavorava in quella direzione in maniera sotterranea mentre qui le cose sono precipitate rapidamente” ci dice un altro militante del movimento kurdo.
Per ora quindi l’auto-difesa popolare ha cercato di limitare i danni con la consapevolezza che senza almeno una risposta difensiva nei quartieri la situazione sarebbe di nuovo quella degli anni 90, quando le macchine “Toros” hanno freddato migliaia di kurdi in vere e proprie esecuzioni extra-legali. “Per ora non abbiamo risposta ai morti causati dalla polizia turca ma dopo domenica le cose devono cambiare” ci dice Memet, un ragazzo incontrato nel quartiere di Ofis.
In generale tutti sembrano oscillare tra una residua speranza in un processo di democratizzazione che partirebbe dal Bakur per coinvolgere tutta la società turca e la consapevolezza che il governo islamo-fascista dell’AKP cerca in tutti i modi di riportare la questione kurda su un piano esclusivamente militare dentro una guerra civile in cui la sproporzione di mezzi appare spaventosa. Continua Memet; “Ciò che cambia è che ora siamo tanti a sapere che Erdogan è un nazista, non solo i kurdi. Per esempio a partire dai fatti di Taksim sono tanti i ragazzi e le ragazze turche che sostengono il movimento, che sono venuti a Kobane”
Due esperienze che si parlano, perché tanti kurdi erano in prima linea a difendere dalle ruspe gli alberi secolari di Gezi Park ma anche perché ha mostrato nel cuore della Turchia il vero volto del governo di Erdogan, permettendo di rompere un muro tra sinistra turca e movimento di liberazione kurdo e consentendo a una generazione di parlarsi. È forse questo la più grande intuizione dell’operazıone HDP: l’essere sorta di contenitore il cui cuore pulsante è senz’altro lo storico partito kurdo BDP ma che è in sostanza uno spazio politico accessibile a tutti. Il movimento di liberazione kurda è riuscito così a far “uscire la questione kurda dal kurdistan” ponendola come questione più generale di libertà e democrazia di tutta la società turca. “Forse un giorno saremo liberi” dice un ragazzo incontrando un amico che ha appena affrontato la polizia ad Antalya. “Tutto è cominciato con Kobane, un anno fa. Adesso queste elezioni ci diranno se sarà pace o sarà guerra”. Tutti lo ripetono, con molti sogni e poche illusioni. “Io credo che sarà guerra” conclude.
Infoaut – Diyarbakir, Kurdistan del nord
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