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Accordo Brexit: difendere i grandi capitali costi quel che costi

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A più di due anni dal referendum che si espresse per la Brexit, l’accordo raggiunto tra il governo May e l’UE per l’uscita del Regno Unito dalle istituzioni comunitarie tradisce molto del pacchetto di cambiamenti che i promotori della consultazione avevano ventilato nella loro propaganda.

Non è detta ancora l’ultima parola, perché il 6 dicembre il parlamento inglese dovrà ratificare l’accordo, che ha già portato a 4 dimissioni tra i ministri e sottosegretari del governo ancora più isolazionisti e ultraliberisti di May. Il 6 dicembre una delle opzioni potrebbe essere anche quella delle dimissioni del governo in caso di voto di fiducia negativo.

Nel partito conservatore infatti la fronda hard brexiteer potrebbe non dare sostegno a May sulla bozza di accordo. La strada più probabile a quel punto sarebbe il cosiddetto no deal e di conseguenza l’uscita senza accordo, che per molti osservatori provocherebbe una probabile recessione per l’economia britannica.

In caso di caduta della May, un’altra strada da non scartare come ipotesi sono elezioni anticipate in cui una nuova maggioranza, presumibilmente laburista, potrebbe rinegoziare ulteriormente la Brexit. Magari andando incontro alle pressioni in arrivo soprattutto da Londra per un possibile secondo referendum che faccia riesprimere sull’uscita dall’UE, come richiesto anche dalla piazza londinese qualche settimana fa.

La fiducia alla bozza di accordo potrebbe non darla nemmeno il Dup. Ovvero il partito unionista nord irlandese che per dare sostegno a May in questo governo tra le condizioni sperava in una Hard Brexit che ripristinasse duri controlli alla frontiera con l’Eire, una frontiera di cui ben conosciamo la storia politica. Finora May non se l’è sentita di aprire anche il fronte nordirlandese, ma non è detto sia sempre così, soprattutto se il governo dovesse cadere e i conservatori dovessero creare una nuova maggioranza ancora più reazionaria.

A trionfare con questo accordo sono soltanto gli interessi della finanza e della grande industria inglese. Queste riescono ancora a prendere tempo, imponendo alla May un altro accordo transitorio (fino al 2020). Salvaguardando al contempo il rapporto economico con il mercato Ue, dato che il Regno Unito rimane nell’Unione doganale. Tracciando la strada per un futuro in cui i suoi profitti siano comunque difesi e mantenuti.

La natura assolutamente contigua dei processi politici genericamente “populisti” di fronte al potere finanziario una volta alla prova di governo si dimostra ancora in un’altra occasione. È un processo a cui ci stiamo abituando: la facciata populista di Trump si configura nei tagli alle tasse per i ricchi e negli attacchi ai diritti dei più poveri della società; in Brasile Bolsonaro affida la sua politica economica all’ultra liberista Guedes e ai suoi piani di privatizzazioni a tutto spiano; in Italia il governo gialloverde “contro l’establishment” tutto ha fatto tranne che attaccare le profonde diseguaglianze sociali del paese.

Si aggiunge alla lista il Regno Unito della Brexit. Che con questo accordo, se passerà, viene incontro alla City e ai suoi bisogni di libera circolazione dei capitali. Altro che risparmio di risorse per attaccare le sacche di povertà e migliorare la sanità inglese come la Brexit prometteva…

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