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Algeria, Libia, Bahrain, Iraq: manifestazioni ovunque

Le lotte più dure coinvolgono le università di Saida, Orano, Tlemcen, Constantine, M’sila, Tizi Ouzou, Bejaia e Chlef da cui spesso partono cortei e ai cui cancelli ormai da giorni si susseguono i picchetti ad oltranza. Questa mattina blocchi stradali hanno visto protagonisti gli studenti dell’università di Laghouat, mentre ad Hassi Mesaoud sono stati i precari e i disoccupati ad essere protagonisti dell’occupazione di alcuni edifici pubblici per protestare contro la disoccupazione e “la mal vie”.

Presidio di più di mille studenti delle scuole superiori davanti al ministero dell’istruzione ad Algeri contro la riforma del sistema scolastico. E blocchi stradali questa mattina da parte dei disoccupati anche a Tizi Ouzou. Ad Annaba alta tensione per un presidio di 5000 disoccupati tenuto sotto pressione da ingenti plotoni di celere, i manifestanti reclamano diritti contro la povertà davanti agli edifici delle istituzioni pubbliche. Ad Akbou da due giorni sono in corso scontri tra manifestanti e poliziotti che hanno duramente represso delle iniziative di denuncia per numerosi sgomberi effettuati martedì dalla polizia contro delle famiglie che occupavano degli alloggi. Dopo gli arresti di alcuni giovani occupanti la piazza si è sollevata ed ha ripetutamente attaccato il commissariato di polizia e altre sedi delle istituzioni. A Batna è in corso uno sciopero generale che sta bloccando tutta la città. Insomma l’Algeria è in movimento e in questo fine settimana potrebbe sperimentare quell’unione di forze tra proletariato giovanile, lotte sociali ed opposizione politica che potrebbe mettere ancora di più in difficoltà il regime.


In Libia la giornata della collera è stata convocata per domani, ma già ieri notte a Bengasi le strade si sono riempite di manifestanti. Indignati per l’arresto di Fethi Terbel, avvocato e attivista per i diritti umani, che segue i familiari della vittime della strage di Abu Salim, quando la polizia uccise a fucilate più di 1500 prigionieri rinchiusi nelle carceri di Tripoli, in molto hanno iniziato a gridare slogan contro Gheddafi, la corruzione del regime e solidarietà ai movimenti egiziani e tunisini. La polizia è intervenuta tentando di disperdere la folla ma è riuscita nell’intento solo dopo molte ore. I manifestanti hanno alzato barricate e incendiato macchine mentre la polizia indietreggiava sparando lacrimogeni e acqua bollente sulla manifestazione. 

Dai social network sono state diffuse notizie da confermare di più di due morti e di uso di armi da fuoco da parte della polizia che sta cercando disperatamente di bloccare ogni forma di comunicazione tra il movimento libico e il resto del mondo. Diversi giornalisti libici sono stati arrestati e anche alcuni giornalisti di aljazeera sono stati fermati mentre tentavano di fare il proprio lavoro. D’altronde aljazeera è nella lista nera di Gheddafi che in questi giorni in solidarietà a Moubarak e a Ben Ali ha tentato più di una volta di danneggiare il satellite da cui trasmette il network attraverso operazioni di disturbo del segnale. Questa mattina alcuni “manifestanti” pro-Gheddafi si sono scagliati con i loro slogan contro l’emittente internazionale di lingua araba e hanno poi inneggiato al rais. In alcuni casi sembra che ci siano stati scontri anche con manifestanti anti-governativi. La giornata della collera prevista per domani sembra iniziare quindi con ore di anticipo contro un dei regimi più attivi insieme all’Italia e allo stato israeliano nel contrastare i movimenti che in questi giorni stanno riscrivendo la storia del nord africa.

 

In Bahrain si sono tenuti nella mattinata di oggi a Mahooz, nella periferia della capitale Manama, i funerali del secondo manifestante ucciso: 2000 persone in corteo tra slogan come “Morte agli Al-Khalifa!” e “Il popolo vuole la caduta del regime!”, personificato dall’odiato Khalifa bin Salman Al-Khalifa, primo ministro al potere da 40 anni, zio del re Hamad e simbolo della classe mercantile predatrice delle ricchezze petrolifere del paese, ormai quasi esaurite. Intanto dalla Pearl Roundabout, sempre più simile ad una nuova piazza El-Tahrir, i giovani, gli studenti ed i disoccupati hanno invocato a gran voce lo sciopero generale per la giornata di domani, rimbalzato immediatamente sulla principale pagina di Facebook dedicata alle proteste, che conta ormai più di 30000 adesioni; per sabato invece gli esponenti sciiti e della sinistra progressista, ritirata ieri la propria partecipazione ai lavori della camera bassa del parlamento (l’unica ad elezione diretta), avrebbero indetto una marcia delle opposizioni unite.

La demokrazia a stelle e strisce irakena ammazza tre manifestanti in una giornata di mobilitazione lanciata da diversi settori della società in lotta per migliorare le proprie condizioni di vita e contro la corruzione del regime. Alcuni commentatori occidentali con il fare delle anime candide giorni fa dicevano che il movimento irakeno avrebbe mostrato al mondo la vittoria della democrazia in Iraq grazie alla tolleranza con cui il regime avrebbe trattato le iniziative di lotta contro il caro vita e la crisi. Ecco qui la prima dimostrazione. Manifestazioni represse che contano già morti e decine di feriti.

D’altronde solo chi fa finta di aver già dimenticato le fiamme che avvolsero Falluja e la violenza dell’esercito americano ed alleato nel presidio militare permanente del post-Saddam potrebbe proporre una considerazione del genere. Smentiti dalla reazione del governo a loro fedele, adesso gli stati occidentali che esportavano la democrazia con tonnellate di bombe, dovranno vedersela con le giornate della collera iraquena che chiama al risveglio un popolo massacrato da crisi economica e guerra.

Intanto proprio oggi, mentre ben 12 delle 18 province irachene erano in mobilitazione, il signor Raffiq Ahmed Al-Janabi, ex ingegnere chimico durante il regime di Saddam dichiara al Gurdian di essersi inventato di sana pianta le storie relative alle armi biologiche e alle fabbriche clandestine di armi di distruzione di massa. Le sue confidenze ai servizi segreti furono il cavallo di battaglia per legittimare la guerra e le atrocità commesse dall’esercito USA e dagli alleati contro il regime del Rais irakeno. Dalle spifferate degli ex informatori, ai moti di piazza la democrazia irakena allestita durante la guerra infinita di Bush sembra poter divenire la dimostrazione, se mai ce ne fosse stato bisogno, delle crociate degli ultimi anni delle potenze occidentali. E insieme al movimento irakeno anche tutti i milioni di uomini e donne mobilitati nel movimento no-war potrebbero prendersi una grande rivincita.

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