Algeria. Finite le elezioni continua la mobilitazione
Di Karim Metref per volerelaluna.it
Il 12 dicembre 2019, in Algeria, ci sono state le elezioni presidenziali per colmare il vuoto istituzionale creato dalle dimissioni dell’ex presidente Abdelaziz Bouteflika, presentate il 2 aprile scorso. Il Consiglio costituzionale ha validato i risultati il 13 dicembre e ha annunciato una partecipazione di 9.755.340 votanti, pari al 39,88% degli iscritti alle liste elettorali. Secondo la stessa fonte le preferenze a favore del presidente “eletto”, Abdelmadjid Tebboune, sarebbero state 4.947.523, pari al 58,13% (www.aps.dz/algerie/99035-le-conseil-constitutionnel-annonce-les-resultats-definitifs-de-la-presidentielle). Un processo elettorale quasi normale, dunque, con un tasso di partecipazione di poco inferiore alla media delle elezioni precedenti. È quello che le autorità algerine vogliono far credere ma la realtà è tutt’altra.
Durante tutto il weekend elettorale, la popolazione che chiede una vera transizione verso la democrazia ha rifiutato, nella sua maggioranza, queste elezioni e si è mobilitata per ostacolarle. Ci sono state manifestazioni ovunque, chiusura di uffici elettorali, urne bruciate, incursioni in molti seggi per documentare l’assenza di affluenza, la presenza di molti militari della leva, costretti a simulare un minimo di presenza, e uno strano traffico di urne piene in anticipo. Secondo il movimento (Hirak) l’affluenza reale è stata bassissima e potrebbe essere sotto il 10%. L’annuncio dei risultati validati non ha intaccato la volontà della popolazione, che continua a riempire le vie e le piazze del Paese. Abdelmadjid Tebboune, battezzato dalla popolazione «Mr. Cocaina», perché – dicono – lui e i suoi figli, sarebbero alla testa dei traffici di droga in Algeria, è rifiutato chiaramente dalla piazza algerina, che lo considera solo un rappresentante del proseguimento del regime corrotto di Bouteflika e dei militari.
Secondo la road-map tracciata dal governo nominato dai militari, la soluzione alla crisi istituzionale che vive l’Algeria passa per l’elezione di un nuovo Presidente della Repubblica. Ma secondo la popolazione che manifesta dal 22 febbraio scorso, prima contro Bouteflika, poi contro tutto il regime, la strada è tutt’altra. La repressione (cresciuta in modo impressionante con centinaia di feriti) e la validazione delle elezioni non sembrano avere effetto sulla mobilitazione della popolazione. La lotta continua. «Hna oulad amirouche marche arrière ma nwellouche» («Siamo figli di Amrouche [eroe della guerra d’indipendenza, ndr] e indietro non torniamo»), continua a cantare la piazza algerina.
Quando il vecchio presidente, ormai malato e a malapena capace di muoversi e di parlare, si presentò di fronte al Consiglio Costituzionale per presentare le dimissioni, ci furono dei timidi festeggiamenti. Le strade algerine si riempirono di persone, macchine, clacson, canti e balli. Il popolo aveva vinto una battaglia, ma fu da subito chiaro che se per l’esercito, che aveva “accompagnato” la volontà del popolo di mettere in pensione il vecchio presidente, quella era la vittoria attesa, per i manifestanti la partenza di Bouteflika e dei suoi fedelissimi era soltanto una tappa verso una vittoria più grande. Un giovane che passava di fronte a una troupe di Sky News in arabo che annunciava “la vittoria del popolo algerino”, si mise tra l’inviata e la telecamera e disse: «Non è vero che è questa la vittoria che volevamo. Noi vogliamo la partenza di tutto il regime: li dobbiamo togliere tutti». Da allora quella divenne la nuova parola d’ordine dell’Hirak, il movimento di protesta. «Yetnehaw ga’», li dobbiamo togliere tutti (vds il video originale: www.facebook.com/watch/?v=400344140793586). Da 10 mesi, ormai, le manifestazioni sono settimanali: ogni venerdì pomeriggio un fiume pacifico ma determinato di uomini e donne di tutte le età, di tutte le classi sociali e in tutte le città del Paese scende in strada. Milioni di persone che dicono che si deve cambiare il sistema. Chiedono l’apertura di un largo dibattito politico, libero e trasparente, una fase di transizione, un’assemblea costituente per riscrivere la costituzione algerina. Quella attuale – dicono – è stata troppe volte ritoccata per assecondare le esigenze del regnante di turno. Si parla di rifondare una nuova Repubblica. Una Repubblica veramente democratica e giusta, che rispetti i diritti e le libertà di tutti.
Il capo di Stato maggiore, generale Ahmed Gaid-Salah, uomo forte del Paese, non vuole sentir parlare di Costituente. Sostiene che il Paese ha solo bisogno di un nuovo presidente. Perciò ha indetto le elezioni presidenziali del 12 dicembre. E in seguito alle proteste dell’Hirak contro questa decisione ha dichiarato che avrebbe validato le elezioni anche in caso di voto di poche centinaia di persone. L’Hirak da parte sua ha deciso non solo di boicottare le elezioni, ma di impedirne il regolare svolgimento. «Makanch intikhabat ma’a l’issabat» («Non ci sono elezioni con le cosche mafiose») è diventato il secondo motto della protesta, aggiungendo: «Dawla madania, maci ascaria» («Uno stato civile e non militare»). Il braccio di ferro è ormai aperto. Dalla sera del 15 settembre, data in cui il Presidente della Repubblica ad interim, Abdelkader Bensalah, ha annunciato la data ufficiale delle presidenziali, le manifestazioni si sono fatte più numerose, più partecipate e tutti gli interventi dell’Hirak, popolazione e attivisti, vanno nella stessa direzione: no elezioni.
Il regime, da parte sua, ha adottato una linea dura. Le forze dell’ordine hanno cominciato a reprimere le manifestazioni, mentre prima avevano un atteggiamento amichevole. Il generale Gaid-Salah, in un tentativo di dividere la protesta tra berberofoni e arabofoni, ha ordinato di arrestare chiunque porta in piazza un simbolo diverso dalla bandiera ufficiale dello Stato algerino. Le forze dell’ordine hanno ottemperato e arrestato decine di manifestanti che si erano presentati con la bandiera del popolo amazigh (berbero). Gli arresti sono fuori da qualsiasi legalità. La costituzione algerina riconosce l’origine amazigh del popolo algerino e riconosce la lingua amazigh come lingua ufficiale dello Stato. Ma i “portatori di bandiere” come vengono chiamati, sono stati solo i primi arrestati. Presto la repressione si è abbattuta su attivisti, giornalisti, blogger e personalità politiche che continuano a sostenere le tesi del movimento popolare. Oltre ai “portatori di bandiere”, come prigionieri di opinione attualmente in carcere si possono citare: Louisa Hannoune, portavoce del Partito dei Lavoratori, arrestata nelle prime settimane della protesta per aver partecipato a una presunta “cospirazione contro lo Stato maggiore”, Lakhdar Bouragaa, eroe della guerra di liberazione nazionale e vecchio oppositore politico, e gli oppositori e attivisti dell’Hirak Karim Tabbou, Hakim Addad, Samir Belarbi e Fodil Boumala. In più, decine di semplici manifestanti, persone arrestate per aver indetto eventi di protesta su Facebook e altri reati di questo genere. La scelta della repressione dimostra quanto il regime conosce poco il suo popolo. La repressione non è mai stata il miglior strumento per impedire agli algerini di arrivare a un obiettivo condiviso. La Francia l’ha capito solo dopo aver massacrato quasi un decimo della popolazione. Vedremo se l’esercito algerino sarà più saggio di quello di De Gaulle.
Nella settimana precedente le elezioni, sia le proteste che la repressione hanno visto un incremento notevole della loro intensità. Le manifestazioni sono passate da settimanali a quotidiane. Centinaia di sindaci hanno annunciato la loro intenzione di non organizzare le elezioni. Laddove l’amministrazione locale non ha annunciato la disobbedienza, spesso la popolazione è andata a chiudere gli uffici comunali (o della sotto-prefettura). Si sono viste scene di distruzioni di urne sulle piazze e gruppi di cittadini che hanno murato o saldato i portoni dei seggi. Nella diaspora, le elezioni sono iniziate l’8 dicembre e sono proseguite sino al 12. I consolati si sono organizzati per fungere da ufficio elettorale, come al solito. E nei Paesi dove c’è una diaspora abbastanza numerosa, sono stati organizzati uffici decentrati in varie città. In Italia ad esempio, gli uffici sono presso le due sedi dei Consolati Generali di Algeria a Roma e Milano, ma anche presso uffici distaccati a Napoli. Palermo, Parma, Brescia e Rovereto. Ovunque gli attivisti dell’Hirak, molto presente anche nella diaspora, hanno presidiato questi uffici, se non per impedire almeno per disturbare il voto e testimoniare l’assenza di affluenza alle urne. Ovunque si è potuto osservare un bassissimo numero di votanti. Si parla di percentuali inferiori all’1%.
In tutto questo tempo, la “comunità internazionale” è rimasta abbastanza silenziosa di fronte a ciò che succede in Algeria. Lo testimonia il silenzio dei mass-media internazionali che hanno relegato le notizie dal più grande Paese africano a pochi e brevissimi lanci di agenzia raramente ripresi dalle singole testate. Ciò si spiega con l’imbarazzo di tutte le potenze internazionali nei confronti della questione algerina. Tutte sanno che il regime è una vera e propria mafia che ha saccheggiato uno dei Paesi più ricchi del pianeta. Ma tutte hanno coperto il saccheggio in cambio di succosi contratti per l’estrazione del petrolio e del gas, per l’estrazione di altre ricchezze naturali, per la vendita di armi e tecnologie di guerra, per la partecipazione alle costruzioni faraoniche di cui il Paese ha fatto un consumo frenetico negli ultimi 20 anni. Hanno coperto il crimine, perché loro stessi ne sono complici diretti o indiretti. Tutti hanno banchettato sul corpo nudo dell’Algeria e del suo popolo ridotto alla disperazione. USA, Francia, Cina e Italia in testa, ma anche Canada, Spagna, Germania, Emirati Arabi, Turchia e molti altri. E oggi, per paura di perdere quella manna, tutti stanno in silenzio. Il regime ne è ovviamente cosciente e, per assicurarsi ulteriore complicità internazionale, ha fatto approvare dal Parlamento, in un momento di transizione in cui le istituzioni dovevano gestire solo l’ordinaria amministrazione, una nuova legge sulle risorse energetiche che apre ulteriormente il campo dello sfruttamento del sottosuolo alle multinazionali, scendendo sotto la soglia del 51% a favore dello Stato algerino, che era imposta nelle leggi precedenti. E anche con l’apertura alla pratica del fracking per l’estrazione del gas di scisto, apertura fermata negli anni precedenti dopo grandi proteste popolari, soprattutto nelle province meridionali del Paese che ne avrebbero sofferto maggiormente.
Il popolo algerino, dunque, lotta da dieci mesi in solitudine. Ma niente sembra intaccare la sua decisione, né le settimane che passano, né le intemperie, né la repressione e ancora meno la solitudine e la mancanza di solidarietà internazionale. Le folle oceaniche che ogni settimana, da dieci mesi, manifestano hanno una sola cosa in mente: la fine del sistema mafioso per una Algeria libera e democratica.
Dopo il 12 dicembre rimangono due alternative. O chi tiene le redini del Paese si arrende alla realtà dei fatti e accetta di liberare i detenuti e di aprire il campo politico e mediatico per un dialogo nazionale libero, trasparente e inclusivo e per l’inizio di una fase di transizione verso la Repubblica democratica che chiede il popolo. Oppure si decide di schierare i carri armati nelle strade e di sparare sulle folle in protesta aprendo così la strada a una fase di caos di cui nessuno può prevedere i risultati. Risultati che avranno sicuramente gravi ripercussioni sul continente e sull’intera regione mediterranea.
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