Appunti dalla brigata cubana Henry Reeve a Torino
“Toda la gloria del mundo cabe en un grano de maìz” – Il contingente medico cubano alle OGR, Torino
Di Gianmarco Peterlongo
Il 14 aprile, a poco meno di un mese dallo sbarco del primo contingente della Henry Reeve in Lombardia, la solidarietà del popolo cubano giunge a Torino per operare nel nuovo ospedale da campo installato presso le Officine Grandi Riparazioni, un imponente ex-complesso industriale di fine ‘800. Le OGR, come sono conosciute in terra sabauda, rappresentano per tanti torinesi un luogo di socialità e di musica, uno dei tanti poli del divertimento, ma anche uno spazio spesso prestato al racconto della cultura e della storia della città. Oggi, a differenza di pochi mesi fa, la storia della città si compie direttamente tra quelle mura. Perché, è bene ricordarlo, l’emergenza Covid porta per la prima volta nella storia una missione volontaria di medici e paramedici cubani in Europa, in paesi silenziosamente complici del bloqueo statunitense.
La brigata Henry Reeve, o meglio il Contingente Internazionale di Medici Specializzati in Situazioni di Catastrofi e Gravi Epidemie Henry Reeve, nasce ufficialmente nel 2005 sotto spinta dello stesso Fidel Castro: l’uragano Katrina ha appena devastato diversi stati della Costa del Golfo degli USA quando la vicina e odiata Cuba offre il proprio supporto medico alle popolazioni colpite. Il governo statunitense con l’allora presidente George Bush rifiuta gli aiuti e impedisce al contingente di recarsi nel proprio paese. Quella che potrebbe sembrare una sconfitta in partenza è in realtà il momento che sancisce il valore e il successo del progetto cubano. La solidarietà internazionalista cubana è il nemico più fastidioso e insolente dell’impero capitalista.
La Henry Reeve si muove ogni qual volta venga richiesto aiuto, come mi spiega uno degli epidemiologi della brigata, René, e ciò è successo anche per l’Italia, quando i governi locali di Piemonte e Lombardia hanno inviato richieste di aiuti internazionali per contrastare la pandemia di Covid-19. All’arrivo all’aeroporto di Caselle del contingente caraibico il governatore Cirio ringrazia l’altruismo del personale volontario appena sbarcato, ignorando probabilmente che la solidarietà internazionale e la generosità con cui Cuba ha sempre offerto il proprio sostegno ai popoli di mezzo mondo non hanno nulla a che vedere con il volontariato come lo intendiamo noi. I lavoratori cubani appena sbarcati, ricorda invece l’ambasciatore della Repubblica di Cuba a Caselle, sono pronti a lavorare con umiltà a fianco dei colleghi italiani con l’unico scopo di contribuire a salvare vite umane.
Sono 38, tra medici e infermieri più il responsabile della comunicazione dei contingenti italiani, il giornalista e scrittore Enrique Ubieta. Tutti uomini, perché, mi spiegano, sono i primi che hanno dato la propria disponibilità per una missione che si preparava a essere dura: René mi racconta che in molti sono partiti da Cuba pronti a costruire un ospedale da campo in mezzo alle valli dell’alta Lombardia, ma alla fine si sono ritrovati in un luogo “di lusso” per gli standard internazionali della brigata. Molti sono giovani appena trentenni, alla seconda o terza missione fuori dall’isola, ma la maggior parte di loro porta sulle spalle numerose esperienze con la brigata in giro per il mondo. Trascorro una buona parte del tempo in chiacchiere con medici e infermieri cubani, quando non ci sono mansioni particolari da svolgere. In questi momenti si alternano aneddoti ed episodi divertenti a racconti dolorosi, che appesantiscono e consumano l’espressione di chi parla. Come quando ricordano la missione contro l’Ebola, il più devastante e letale virus forse mai conosciuto: “al nostro arrivo a Monrovia, la letalità del virus era intorno al 98%”, ricostruisce René. La campagna per combattere l’Ebola della brigata Henry Reeve, primo contingente internazionale a essere sceso in campo nel 2014 in Africa occidentale, è stata sicuramente una delle più dure. In Liberia una parte della brigata prestò il proprio aiuto in un ospedale improvvisato su una barca ancorata sul corso di un fiume, coperti di metallo sotto il sole cocente, in condizioni più che arrangiate e con all’interno oltre 50 gradi. Al momento della ripartenza della brigata dall’Africa per tornare nei Caraibi la letalità del virus era scesa sotto il 30%.
Nell’ottobre del 2005, a un mese dalla formalizzazione ufficiale della brigata internazionale Henry Reeve, un contingente di più di duemila donne e uomini cubani partì per il Pakistan in occasione del terremoto che aveva colpito intensamente l’area del Kashmir causando più di 80mila morti. Dopo il tentativo fallito negli Stati Uniti, questa era la prima missione ufficiale della Henry Reeve all’estero. Silvio, medico trentenne della brigata, racconta che quando giunsero in Pakistan furono condotti fino a un campo di mais, al freddo in mezzo alle montagne innevate: arrivò una ruspa che spianò il campo e fu solo allora che capirono che dovevano installare lì l’ospedale da campo, in mezzo al nulla. Cinque anni dopo è il terremoto ad Haiti a chiamare i medici cubani, a seguito soprattutto della grave epidemia di colera che aveva seguito il disastro naturale. Lo stesso per altri terremoti, come quelli in Nepal ed Ecuador, poi uragani e inondazioni, o missioni specifiche per combattere l’avanzata di virus come la malaria, il dengue, l’epatite. Ogni volta che la solidarietà cubana mette piede fuori dall’isola caraibica “il mondo ringrazia e l’impero si infuria”, come ricorda il titolo di un articolo del giornale Juventud Rebelde per incorniciare lo sbarco del primo contingente in Italia (El mundo agradece, el imperio se enfurece). E questa volta il piede è stato messo proprio nel cuore dell’impero. Suscitando, tra le altre cose, non poca indignazione da parte dei vicini Stati Uniti: un Tweet dello scorso marzo pubblicato dal profilo ufficiale dell’Ambasciata degli Stati Uniti a L’Avana mette in guardia i paesi alleati degli USA dal ricevere missioni mediche cubane, in quanto il personale sarebbe sfruttato e addirittura costretto al ‘lavoro forzato’.
Ad oggi, Cuba ha inviato 15 missioni mediche specifiche per fronteggiare il Coronavirus, quasi tutte in America Latina, più Italia e Andorra in Europa, che si aggiungono alle missioni permanenti installate in diversi paesi alleati di Cuba, dal Venezuela all’Angola. La diplomazia medica, però, costituisce un pilastro della politica estera cubana da ben prima del Coronavirus e della Henry Reeve: secondo l’Organizzazione Panamericana della Salute, il primo contingente cubano ad aver lasciato l’isola per offrire sostegno medico fu nel 1963, in Algeria. Da allora diverse centinaia di migliaia di lavoratori e lavoratrici della salute cubani hanno prestato servizio in più di 160 paesi tra America Latina, Caraibi, Africa, Asia e Oceania. Se molti progetti di cooperazione medica hanno una forte rilevanza per l’economia cubana – tra cui spicca il famoso accordo di scambio di medici per petrolio firmato nel 2003 tra Hugo Chavez e Fidel Castro – la brigata Henry Reeve, invece, si muove esclusivamente a titolo volontario in nome della solidarietà: nel caso della missione in Italia, ad esempio, il governo del nostro paese ha assicurato di coprire le necessità di vitto e alloggio del contingente, ma il personale cubano non riceve nulla al di fuori del proprio regolare stipendio, che per un medico si aggira intorno ai 70 dollari mensili.
“Sai cos’è la cosa più bella di quest’ospedale?”, mi domanda René, “l’albero qui fuori”. È un piccolo alberello ornamentale cresciuto in un vaso all’ingresso delle OGR: a differenza degli altri, però, è addobbato con dei nastri bianchi, uno per ogni paziente che viene dimesso dall’ospedale provvisorio. Siamo già oltre gli 80 nastri appesi sull’Albero della Vita. Alle OGR la brigata cubana lavora instancabilmente con tre turni orari che coprono l’intera giornata. Assieme a loro ci siamo noi, un gruppo di volontari che lavorano come interpreti a fianco del personale cubano: una parte importante della stessa brigata Henry Reeve, come ha detto il responsabile della missione medica cubana Julio Guerra nel ringraziare il sostegno dei traduttori durante la permanenza a Torino. Il personale sanitario cubano lavora insieme a quello italiano per seguire i pazienti presenti tra i circa 90 posti letto a disposizione. All’inizio era difficile coordinarsi, racconta il responsabile medico italiano dell’ospedale, il dottor Massimo, in una intervista rilasciata per il cronista Enrique Ubieta in cui mi sono ritrovato a far da interprete. Poi col tempo hanno imparato a conoscersi a vicenda e a imparare l’un l’altro: “un medico italiano e uno cubano ora seguono insieme un paziente, e ogni giorno si confrontano a vicenda sul corso della malattia”, racconta Massimo, “e così abbiamo imparato molto dalla medicina cubana, una medicina più vicina al paziente e che non ha bisogno di particolari risorse perché usa la testa più che le mani”.
Uno dei compiti di cui è esclusivamente incaricato il personale cubano è il monitoraggio delle operazioni di vestimento e svestimento quando si entra nella zona rossa, l’area dove sono ricoverati i pazienti Covid. Tali operazioni sono molto delicate e importanti perché costituiscono l’unica barriera per salvaguardare il personale sanitario dalla possibilità di contagio. Un paio di epidemiologi cubani si danno il turno per sorvegliare costantemente l’ingresso alla zona rossa aiutando gli altri a indossare i materiali protettivi e soprattutto controllando a distanza di sicurezza le operazioni di svestimento. Dopo turni da 5 ore dentro una tuta, con maschera, guanti, cuffia e visore, sfiniti e sudati è facile distrarsi e sbagliare piccoli movimenti rischiando inavvertitamente di contagiarsi proprio nel momento in cui si esce dalla zona rossa: di tanto in tanto nella sala spicca un urlo di Renè o di Adriàn nel momento in cui notano un’infrazione al rigido protocollo di sicurezza, lo stesso che i cubani hanno utilizzato e perfezionato durante l’epidemia di Ebola e che, mi confessa una dottoressa, adotta maggiori precauzioni di quello consigliato dall’OMS che si utilizzava prima dell’arrivo della Henry Reeve.
Per me, ogni volta, recarmi all’ospedale provvisorio delle OGR è come entrare a Cuba, ritrovarmi tra le vie de La Habana Vieja, immerso tra quelle inconfondibili sonorità caraibiche che fanno del cubano uno degli spagnoli più piacevoli e irriverenti. Dentro le OGR ci trovo miei coetanei con cui discutere di interessi e passioni comuni, padri di famiglia con la nostalgia dei propri cari, medici e infermieri appassionati della propria disciplina, lavoratori instancabili cultori di musica, storia e cinema: tanti uomini semplici, ma con storie importanti ed esperienze rare sulle spalle. Non si tratta di eroi perché non è la fama e la gloria che ha spinto Cuba nella storia a fornire il proprio aiuto a popoli in lotta per la propria autodeterminazione e a popolazioni colpite da calamità naturali ed emergenze sanitarie. È il sogno di riscatto di un sud globale libero dalle catene dell’imperialismo e dal colonialismo. Mi torna in mente l’autunno del 2016, quando ai funerali di Fidel Castro nella cerimonia in Plaza de la Revoluciòn a L’Avana il presidente della Namibia ricordò con orgoglio l’umiltà e il coraggio con cui i soldati cubani avevano appoggiato le guerre di liberazione in diversi paesi dell’Africa australe: “i cubani vennero per aiutare a liberare un popolo”, disse in quella occasione, “e furono gli unici che non si portarono via oro o diamanti, ma solo i resti dei propri compagni caduti”. L’idea del celebre rivoluzionario dell’indipendenza cubana José Martì per cui “tutta la gloria del mondo sta in un chicco di mais – toda la gloria del mundo cabe en un grano de maìz” vive ancora oggi nelle azioni che continuano a rendere Cuba, nonostante i decenni di bloqueo criminale, un faro di speranza per un mondo migliore di quello che abbiamo, oltre che una fastidiosissima spina nel fianco dell’imperialismo gringo.
Il 24 maggio è ufficialmente terminata la missione del contingente cubano installato a Crema, mentre a Torino la brigata prevede di restare finché c’è bisogno, ovvero verosimilmente fino a che non verrà smantellato l’ospedale provvisorio delle OGR. Tra medici e infermieri italiani e cubani si sono ormai strette solide relazioni tanto che sembra di vedere un’unica squadra al lavoro. E tra le sale delle ex-officine iniziano già a rumoreggiare le voci preoccupate di chi sente la mancanza della Henry Reeve prima ancora che questa debba andarsene.
Grazie Brigata Henry Reeve!
CubaSalvaVidas
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