Bombe a Gaza, repressione nella West Bank
La lotta palestinese ha dimostrato ancora una volta la sua centralità nello scenario mediorientale e non solo, forti le ripercussioni nel vicino Egitto post-Tahrir dove in migliaia sono scesi in piazza più determinati che mai per dare un forte segnale di rottura con lo stato sionista, di intolleranza verso le politiche neo-colonialiste nell’area e di pieno supporto alla lotta palestinese.
Fino a ieri, per tre giorni e due notti consecutive l’aviazione israeliana ha sorvolato e bombardato l’intera Striscia di Gaza. Raid continui hanno distrutto case, palazzi e piazze da Beit Hanoun e Beit Lahiya a Nord e a Khan Younis a Sud.
Di fronte al bombardamento di Gaza i palestinesi hanno portato avanti la loro resistenza, decine di colpi di mortaio che hanno colpito il sud di “Israele”: nella città di Ashdod sono stati feriti tre lavoratori palestinesi costretti a lavorare nelle colonie, un colono è stato ucciso dagli stessi razzi a Beersheva. Tutti i territori in questione sono territori occupati dalle forze armate israeliane nel corso della guerra del 1948 o di quella del 1967; territori palestinesi da cui in migliaia sono stati scacciati e per cui il popolo palestinese rivendica un legittimo diritto al ritorno.
Le azioni armate sono state rivendicate da vari gruppi armati della resistenza palestinese, tra cui le brigate Al-Qassam, braccio armato di Hamas che ha dichiarato per alcuni giorni la fine della lunga tregua militare con le autorità israeliane, i Comitati di Resistenza Popolare e le Brigate Abu Ali Mustafa, braccio armato del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.
Come tutta risposta alla decisa anche se debole militarmente, resistenza palestinese, il grandissimo apparato repressivo israeliano è sceso in campo sferrando attacchi militari aerei nella striscia, uccidendo, reprimendo e terrorizzando Gaza ma anche tutti i territori occupati.
Il livello di scontro è altissimo, a livello che pure la moderata Fatah, negli ultimi anni fedele alleato dello stato israeliano, si è espressa a favore della resistenza dicendosi pronta a “difendere il popolo palestinese con tutti i mezzi”.
Intanto Hamas ed altri gruppi armati si sono detti pronti a ripristinare il cassate-il-fuoco, allo scopo di fermare la violenza israeliana sulla popolazione di Gaza. Certamente questi per adesso sono soltanto propositi, raggiunti grazie alla mediazione del governo egiziano che si sta proponendo sempre più come garante dello status quo nell’area mediorientale, bisognerà vedere sia se le fazioni palestinesi rispetteranno tale accordo (stanotte alcuni colpi di mortaio da Gaza hanno raggiunto città israeliane senza provocare vittime), sia se le autorità israeliane accoglieranno il cessate-il-fuoco oppure se prenderanno l’occasione per un nuovo attacco militare in stile piombo fuso.
A pagare il prezzo della vendetta israeliana è stata anche la Cisgiordania.
Nella West Bank compaiono nuove barriere, nuovi check-point, la fragile continuità territoriale palestinese viene in queste giornate nettamente interrotta.
La polizia israeliana ha blindato Gerusalemme Est innalzando barricate e chiudendo la Porta di Damasco, ingresso della Città Vecchia, allo scopo di impedire ai palestinesi l’accesso alla Moschea di Al-Aqsa. Ci sono stati scontri tra poliziotti e fedeli che tentavano di varcare le barriere difensive, la polizia ha disperso la folla con idranti e bombe suono.
La repressione sionista non si ferma però solo all’attacco miliare; forte è anche la violenza privata dei coloni. Attacchi si sono verificati nella giornata di ieri in un villaggio nei pressi di Nablus, dove coloni provenienti dall’insediamento illegale di Esh Kodesh hanno distrutto campi di ulivi palestinesi. Questa mattina auto palestinesi sono state bruciate in un villaggio vicino Ramallah, scritte in ebraico con slogan anti-arabi sono apparse sui muri vicino alle auto date alle fiamme, attacchi di coloni contro contadini palestinesi si sono avuti in villaggi vicini.
Questi sono solo esempi della situazione che si vive quotidianamente nei villaggi vicini agli insediamenti: le aggressioni portate avanti da coloni, spesso armati, nei confronti della popolazione palestinese rappresentano oramai un piano sistematico di attacco delle terre vicine al fine di confiscare sempre maggiori terreni da annettere agli insediamenti illegali in Cisgiordania.
La scorsa notte Hebron, città in cui i coloni si appropriano del centro storico e hanno trasformato il centro abitato dai palestinesi in una grande gabbia piena di check-point e barriere, è stata protagonista di una vastissima operazione repressiva. Qui ieri si è svolta la più grande operazione d’arresto dai tempi della seconda Intifada; oltre 100 jeep militari hanno fatto irruzione nella città imponendo il coprifuoco e arrestando 120 palestinesi con l’accusa di essere sostenitori di Hamas.
Uno degli elementi ancora una volta emersi è il rapporto tra il tentativo di legittimazione del sionismo per giustificare le proprie azioni e la rivendicazione degli attacchi armati della resistenza palestinese. Da una parte la resistenza, nelle sue diverse componenti, rivendica le proprie azioni militari e di resistenza armata come parte della resistenza nazionale contro il colonialismo per la libertà, il diritto al ritorno e l’autodeterminazione. Dall’altra parte il governo sionista afferma tutta una serie di falsità che gli permettono di ottenere l’appoggio della comunità internazionale e la copertura dei crimini di guerra.
Le autorità israeliane continuano a utilizzare l’arma mediatica dell’autodifesa e della guerra contro il famigerato “terrorismo islamico”, dichiarando di colpire solo obiettivi militari, come se nessuno dei 1400 morti di Piombo Fuso o le decine di morti palestinesi al mese fossero stati civili; continuano a giustificare la continua militarizzazione della Palestina – che in queste giornate ha raggiunto quasi i livelli degli anni dell’Intifada – come “misura preventiva”; dichiarano di portare avanti arresti mirati di “terroristi”, come sarebbero stati secondo il regime sionista i 120 palestinesi arrestati nella sola notte di ieri, le migliaia di prigionieri nelle carceri israeliane e le centinaia di bambini che sono stati a loro dire imprigionati perché “pericolosi terroristi” colpevoli di aver tirato qualche pietra verso una schiera di soldati che ai loro giovani occhi pieni di rabbia rispecchiano anni di soprusi e sofferenze.
Intanto aumenta la probabilità di un attacco di terra israeliano contro la Striscia, così come si fa probabile anche una rioccupazione del Sinai. Insieme alle dichiarazioni di voler procedere con la costruzione di un “Muro difensivo” al confine con l’Egitto – come il Muro dell’Apartheid nei territori occupati tramite cui, con la solita scusa di combattere il terrorismo, lo stato ebraico è riuscito a espropriare sempre maggiori territori palestinesi – le autorità israeliane continuano ad accusare il governo egiziano di non essere in grado di difendere i confini. Fonti militari paventano la possibilità che Tel Aviv possa chiedere alle forze armate internazionali di “controllare i
confini con l’Egitto”; stessa storia vista in Libano dove forze internazionali “controllano” il territorio di uno stato sovrano in conflitto con lo stato sionista. In un momento di forte transizione nel mondo arabo l’impiego di forze internazionali, siano le forze NATO come in Libia o le forze UNIFIL come in Libano, permettono, sotto le mentite spoglie “umanitarie” e la presenza militare internazionale, una maggiore ingerenza occidentale.
Intanto in Egitto dopo l’uccisione dei militari egiziani da parte delle forze israeliane, in migliaia si sono recati di fronte all’ambasciata israeliana a Il Cairo per chiedere l’espulsione dell’ambasciatore israeliano. Moltissime le bandiere palestinesi al vento, così come altrettante quelle israeliane bruciate dalla folla. I manifestanti inneggiavano alla liberazione della Palestina e alla fine del “sistema di Camp David”, quella normalizzazione forzata dei rapporti voluta dall’ex presidente Sadat e poi tramutatasi sotto Mubarak in un vero e proprio servilismo agli interessi sionisti, come dimostrato dalla politica filo-israeliana del regime di Mubarak durante l’operazione Piombo Fuso a Gaza.
Per cercare di mettere a tacere la piazza che chiedeva l’espulsione dell’ambasciatore israeliano dal suolo egiziano, la scelta “di compromesso” della giunta militare al potere è stata quella di ritirare momentaneamente il proprio ambasciatore da Tel Aviv e di chiedere scuse formali per l’uccisione dei propri militari; scelta questa meno compromettente rispetto a quella chiesta dalla piazza e che non pregiudica definitivamente i rapporti con lo stato ebraico. Scelta indubbiamente più diplomatica dell’espulsione dell’ambasciatore israeliano che sarebbe potuta essere vista come dichiarazione di guerra da parte delle autorità israeliane. Ma è proprio questo che l’Egitto della Rivoluzione vuole, come dimostrato nella giornata della Nakba, la piazza egiziana dichiara guerra a Tel Aviv, gli egiziani vogliono battersi contro il neo-colonialismo israeliano e non accettano più di essere complici con i crimini sionisti.
Al presidio, durato più giorni si urlava “I giovani vogliono la caduta del maresciallo (Tantawi)”; “I giovani vogliono la caduta di Camp David”, riprendendo lo slogan per cui in tanti hanno dato la propria vita nelle giornate di febbraio; la stessa determinazione rivoluzionaria egiziana si esprime nuovamente oggi. La stessa rabbia della Rivoluzione di Tahrir si è manifestata in queste giornate in cui il popolo egiziano è sceso e continuerà a scendere in piazza per il popolo palestinese.
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