Contro la guerra, per la rivoluzione araba
Pubblichiamo questo articolo di Mauro Vanetti apparso pochi giorni fa su Carmillaonline perché propone una lettura capace di tematizzare tutte le problematicità del rapporto tra il Consiglio nazionale provvisorio di Transizione di Bengasi e la piazza insorgente del movimento del 17 febbraio. Ricostruendo brevemente i primi passi del movimento contro il regime di Gheddafi e analizzando il ruolo del consiglio di Bengasi (e le personalità che lo compongono), Vanetti riesce a cogliere quella complessità delle relazioni sociali e politiche tra il movimento e l’autorità di transizione libica, fuggendo dallo schiacciamento del primo sulla seconda. Tendenza che ci sembra ricorrere nel dibattito anche a sinistra che liquida fin troppo in fretta lo sviluppo della piazza insorgente contro Gheddafi, le stratificazioni sociali e politiche che la compongono, se non poi le differenze e le ostilità tra la piazza stessa e l’autorità di transizione. Alla critica radicale della narrazione del mainstreem che tramite i grandi network tenta di dare legittimità ai bombardamenti nato contro la Libia non può che accompagnarsi anche un tentativo di inchiesta sulla composizione e gli sviluppi politici e sociali del movimento insorgente libico forse tra le tante piazze arabe in rivolta quello più sotto attacco: dal regime di Gheddafi, dall’autorità di transizione di Bengasi, e dalla feroce e pericolosissima reazione occidentale.
Contro la guerra, per la rivoluzione araba. Per la rivoluzione ovunque.
di Mauro Vanetti da Carmilla on line
Per chi come me ha cominciato a fare politica al liceo negli anni Novanta, in un periodo in cui si credeva che la storia fosse finita, come aveva scritto un importante saggista, era inevitabile sentirsi dire che le rivoluzioni, le insurrezioni erano una cosa del passato che non si sarebbero più verificate.
Se per un ragazzino del liceo degli anni Sessanta o Settanta era ammissibile assumere posizioni marxiste e rivoluzionarie, farlo negli anni Novanta sembrava un’imperdonabile ingenuità.
A distanza di qualche anno, il Duemila è arrivato e possiamo dire che il XXI secolo passerà probabilmente alla storia come il secolo più rivoluzionario che ci sia mai stato. Nei manuali di storia del futuro sicuramente un capitolo sarà dedicato alle rivoluzioni arabe iniziate nel 2011.
Anzi, preferisco dire alla rivoluzione araba, al singolare. Si tratta infatti di un unico processo. Gli arabi sono nei fatti un solo popolo, unitario per lingua, per tradizioni culturali, diviso in venti Paesi geograficamente contigui, accomunato da una sola aspirazione storica: quella all’unità e alla liberazione da chi gli impedisce di avere quella prosperità che il popolo arabo potrebbe avere se fosse coeso ed emancipato. Questa aspirazione storicamente ha cozzato in primo luogo contro la prepotenza degli imperialismi occidentali, che sono i principali artefici della divisione artificiale degli arabi in molti Paesi più piccoli e più facili da dominare; in secondo luogo contro gli stessi dittatori o monarchi o leader arabi, che nella stampa occidentale vengono classificati secondo due categorie: i buoni o moderati, che sono quelli come Ben Alì in Tunisia o Mubarak in Egitto o la dinastia saudita in Arabia, che sono alleati dell’Occidente, e i cattivi o fanatici, come Gheddafi o Assad in Siria o il fu Saddam Hussein, che sono quelli che non fanno buoni affari con l’Occidente.
Come si è visto con Saddam e con Gheddafi, i moderati possono diventare facilmente fanatici e i cattivi possono diventare facilmente buoni. Non è soltanto ipocrisia occidentale. Nel caso della Libia, ma un discorso simile vale anche per la Siria, c’è stato anche un cambio di passo da parte del governo.
Questo regime ha giocato in passato un ruolo relativamente progressista, modernizzando il Paese, abolendo la monarchia, espellendo ed espropriando le multinazionali straniere, migliorando la condizione della donna, creando un sistema di Stato sociale. Di fatto ha per alcuni decenni garantito che una quota elevata della ricchezza del Paese venisse trattenuta in Libia invece di essere ceduta all’imperialismo; questo era fatto in un contesto di oppressione politica e seguendo le bizzarre teorie del Libro Verde di Gheddafi, che sosteneva di aver trovato una “terza via” tra capitalismo e comunismo.
Grazie al potere totalitario di cui godeva il regime, si è formata gradualmente una cupola capitalista attorno alla famiglia Gheddafi. I figli di Gheddafi hanno cominciato a girare per l’Europa, a stringere legami con la borghesia occidentale. Il regime ha iniziato ad investire all’estero, in imprese private straniere, la rendita petrolifera. La Libia possiede oggi il 7,2% di Unicredit, il 7,5% della Juventus, il 21,7% della ditta Olcese, il 2% di Finmeccanica, una percentuale della stessa FIAT. Le sanzioni economiche internazionali sono state rimosse nel 1999. Nel 2001 sono iniziate grandi privatizzazioni, quella che viene chiamata con un eufemismo “l’apertura del Paese”, con un’immagine che ricorda una finestra spalancata: ma non è aria fresca quella che entra, sono gli investimenti delle multinazionali.
Con l’invasione dell’Iraq, Gheddafi dichiara che intende aiutare l’Occidente nella guerra al terrorismo, e inizia la fase in cui lo “Stato canaglia” libico è descritto in termini sempre più positivi in Occidente. Non c’è solo il baciamano di Berlusconi e le 300 hostess mandate a Roma a farsi fare un corso di Corano da Gheddafi, anche i governi di altri Paesi sono stati altrettanto amichevoli col dittatore, incluso Sarkozy. Il Fondo Monetario Internazionale il 9 febbraio descrive così la Libia:
“Un ambizioso programma per privatizzare banche e sviluppare il settore finanziario è in sviluppo. Le banche sono state parzialmente privatizzate, liberati i tassi di interesse e incoraggiata la concorrenza. Tentativi di successo per ristrutturare e modernizzare la Banca Centrale Libica sono in corso con l’assistenza del Fondo.”
Uno dei temi su cui si consolida il rapporto tra l’imperialismo e il regime libico è il controllo dei flussi migratori, ovvero la persecuzione violenta di chi tenta di raggiungere l’Europa passando dalla Libia. Sono stato in Marocco alcuni anni fa, e ricordo la violenza con cui a Tangeri i poliziotti marocchini impedivano ai loro stessi connazionali di imbarcarsi clandestinamente sui traghetti di noi turisti. Davanti ai nostri occhi un poliziotto aveva fermato uno di questi emigranti, gli aveva strappato la camicia, lo aveva preso a sberle e l’aveva rimandato indietro; una corpulenta donna marocchina, molto coraggiosa, era stata l’unica ad avere il fegato per andare dal poliziotto a protestare. Di fatto quel poliziotto non stava lavorando per il Marocco, ma per la Spagna. Se questo è ciò che avviene in Marocco davanti agli occhi dei turisti europei, possiamo solo immaginare cosa avviene ai migranti che attraversano la Libia che finiscono nelle mani della polizia libica, che agisce per procura per conto dell’Italia e degli altri Paesi europei. E infatti ci sono documentari che testimoniano delle uccisioni di migranti nel deserto e dei lager in cui vengono ammassati per rispettare il Trattato Italo-Libico.
Le privatizzazioni e il riavvicinamento all’Occidente ha avuto delle conseguenze economiche, rendendo il Paese socialmente più simile ai suoi vicini, nonostante le condizioni di vita siano tuttora molto superiori. Ma come sempre, non è la povertà assoluta che crea le rivoluzioni, è la povertà relativa delle masse messa a confronto con il lusso dei ceti dominanti.
Negli ultimi anni in Libia c’è stato un forte aumento dei prezzi dei beni di consumo, dell’acqua, dell’elettricità. La disoccupazione è salita al 30%. La popolazione è ormai concentrata nelle città e la maggioranza della popolazione, come in Europa, è costituita da lavoratori salariati. Una grande parte della classe operaia è costituita da immigrati, che vivono in condizioni di sfruttamento nettamente peggiori rispetto ai cittadini libici. Non esistono diritti sindacali e ogni forma di organizzazione politica è repressa duramente.
Tra la fine del 2010 e oggi scoppiano le rivoluzioni nel mondo arabo. Queste rivoluzioni hanno colto di sorpresa molti commentatori; devo dire senza superbia che non ha sorpreso noi marxisti. La rivista FalceMartello nel 2006 ha pubblicato un opuscolo, di cui abbiamo prodotto una ristampa, nella cui introduzione Claudio Bellotti scriveva:
“È dunque evidente che il Medio oriente e il mondo arabo si avviano a una nuova serie di esplosioni rivoluzionarie. Ci si può solo domandare quale sarà il paese che aprirà la strada, e quando il processo si manifesterà apertamente. Ma quando si apriranno le prime crepe nella diga, l’intera regione potrebbe vedere una reazione a catena pari a quella che da tre anni vede l’America Latina attraversata da una rivoluzione dopo l’altra, dall’Ecuador al Venezuela, dall’Argentina alla Bolivia.”
Non sapevamo quando, ma sapevamo che sarebbero arrivate presto, e sapevamo che avrebbero avuto una scala sovranazionale. Queste rivoluzioni non sono infatti un fulmine a ciel sereno. Sono state preparate da anni di proteste, scioperi, e anche vere e proprie insurrezioni come quelle in occasione degli aumenti del prezzo del pane nel 2007-2008 o come la sanguinosa rivolta di Bengasi del 2006, innescata dalle provocazioni di Calderoli contro l’Islam ma chiaramente indicativa di forti tensioni sociali.
In queste proteste si mescolano rivendicazioni democratiche a rivendicazioni sociali, in proporzioni diverse a seconda del Paese e soprattutto a seconda della classe sociale di ogni individuo. Sicuramente Wael Ghonim, il giovane quadro di Google che è diventato un simbolo della rivoluzione egiziana, sarà più interessato a questioni costituzionali, mentre sospettiamo che i sindacalisti di Suez che organizzando una serie di scioperi sono riusciti a far cadere il regime di Mubarak siano più sensibili alle questioni salariali. “Chi si aspetta di vedere una rivoluzione sociale in forma pura, non vivrà abbastanza per vederla” diceva Lenin. E se vogliamo parlare di Lenin, queste rivoluzioni assomigliano sicuramente più alla Rivoluzione Russa di Febbraio del 1917, che cacciò lo zar e instaurò la repubblica, che alla Rivoluzione d’Ottobre, che instaurò lo Stato operaio. Questo vuol dire che tra qualche mese avremo una Rivoluzione d’Ottobre nel mondo arabo? Non credo, ma sicuramente si aprono delle possibilità che prima erano chiuse. Ricordiamoci ancora una volta l’esempio dell’America Latina, dove una gigantesca rivoluzione continentale è ancora in corso dopo più di un decennio. Si tratta di processi lunghi e contorti, dove uno dei problemi è la costruzione di una leadership rivoluzionaria. E la mancanza di questa leadership è proprio il problema attuale nei Paesi del Nord Africa, perché sta permettendo alla controrivoluzione di alzare la testa.
Ho voluto fare questa ampia premessa perché, se gli interventisti usano la Rivoluzione in Libia come pretesto per giustificare la guerra, credo che noi dobbiamo fare il ragionamento opposto: siamo contro la guerra proprio perché stiamo con la Rivoluzione. Ma stiamo con la Rivoluzione da rivoluzionari, ossia da persone per cui una rivoluzione è un fatto concreto che va approfondito, non una favola.
Perché in televisione abbiamo visto la Rivoluzione ridotta ad una favola per bambini: Gheddafi è cattivo e quindi spara sui civili; l’Occidente è buono e attacca Gheddafi per difendere i civili. Quindi bisogna sostenere l’intervento. Come tutte le favole, ha una sua forza; ma se ci pensi un attimo, trovi delle contraddizioni, e non ti spieghi come sia possibile che Cappuccetto Rosso non si accorga che la nonna in realtà è un lupo. E anche qui ci sono molti lupi travestiti da pecore, o da nonne.
La Rivoluzione in Tunisia, cominciata soprattutto come rivolta giovanile, ha conquistato inizialmente la zona meridionale del Paese, e all’inizio di gennaio è entrata in stallo perché non riusciva ad arrivare a Tunisi. Ad un certo punto, è scesa in campo la classe operaia e ha cambiato la situazione. Il sindacato tunisino, l’UGTT, ha cominciato a convocare degli scioperi generali e a puntare apertamente alla cacciata di Ben Alì. Tunisi è stata trascinata nella rivolta e il dittatore è stato rimosso. La Rivoluzione non è finita lì perché in seguito sono state necessarie altre mobilitazioni per evitare che la Rivoluzione venisse “scippata” dai trasformisti, e il processo rivoluzionario è tuttora in corso.
La Rivoluzione in Egitto è partita dal Cairo, da piazza Tahrir, ma anche lì si era arrivati ad uno stallo: i rivoluzionari avevano conquistato una piazza della capitale, ma il resto del Paese? Anche lì è stato l’intervento della classe operaia, con gli scioperi generali a Suez e in tutto il Paese, a dare il colpo di grazia a Mubarak. E anche lì vediamo oggi dei tentativi controrivoluzionari (per esempio sulla questione del cambiamento della Costituzione o sulla proibizione degli scioperi) e una nuova mobilitazione dei rivoluzionari di febbraio.
In Libia, la Rivoluzione è partita da Bengasi e dalla Cirenaica. Poteva essere altrimenti? La Libia è divisa in tre regioni: Tripolitania, ad ovest, Fezzan, a sudovest, e Cirenaica, ad est. La Cirenaica è da sempre la zona dove il consenso a Gheddafi è minore, per ragioni storiche e per ragioni tribali. È anche la zona che si sente più vicina all’Egitto. Non credo però che si possa ridurre lo scontro ad uno scontro tribale; questa è una spiegazione che più che per chiarire mi sembra sia fatta per confondere. Posso dare qualche dettaglio in più se interessa, ma basti dire che in Libia ci sono 140 tribù, di cui le più importanti sono una trentina. La più grande, Warfallah, ha un milione di membri e ad un certo punto della rivolta i suoi anziani si sono dichiarati dalla parte degli insorti; questa tribù però non è della Cirenaica, ma è soprattutto in Tripolitania. La tribù di Gheddafi, che è la più fedele al regime, si chiama appunto Gheddafi, ma è abbastanza piccola, e comunque ha molti membri anche a Bengasi. Una tribù importante della Tripolitania è la Zuwaya, che ha preso posizione subito contro il regime. Se cercassimo di capire quel che è successo solo in termini di scontri tra tribù della Cirenaica contro tribù della Tripolitania, ci perderemmo in un Risiko indecifrabile. La realtà è che anche le tribù che si sono ufficialmente schierate con Gheddafi, hanno avuto una spaccatura al loro interno, così come l’hanno avuta quelle che si sono schierate con l’opposizione. Negli ultimi decenni l’importanza del tribalismo è molto diminuita in Libia, e il sentimento prevalente in questo momento più che l’appartenenza tribale credo che sia l’appartenenza all’intero mondo arabo.
Dunque, le proteste, che sono presto diventate delle insurrezioni dopo la durissima repressione del regime, sono partite a Bengasi e si sono rapidamente estese a moltissime città sia nell’ovest sia nell’est del Paese. Il 5 marzo il Consiglio Provvisorio di Transizione di Bengasi, che poi si autoproclamerà Governo Transitorio della Repubblica di Libia, sosteneva che fossero cadute in mano all’opposizione lungo la costa Tobruk, Bengasi, Agedabia, Brega, Ras Lanuf, Misurata e addirittura una città appena fuori Tripoli, Az-Zawiya, oltre che quasi tutte le città dell’entroterra anche occidentale. A questo punto però si è avuto uno stallo dei rivoluzionari e una controffensiva di Gheddafi. Come mai?
Noi riteniamo che questo sia dovuto ad un problema di strategia e di direzione del movimento. Lo ha scritto Dario Salvetti in un articolo del 16 marzo:
“Una rivoluzione non è una conquista militare contro l’esercito, ma la conquista sociale dell’esercito stesso. Se si trattasse di un puro fatto militare, la rivoluzione sarebbe sconfitta in partenza. Sotto la pressione sociale, l’esercito può scindersi su basi di classe con la rottura della catena di comando tra alti ufficiali e soldati semplici. Può passare dalla parte degli insorti o semplicemente essere ridotto alla neutralità dalla sensazione di non essere sufficientemente forte per reprimere l’intera popolazione. L’istante in cui si creano legami di solidarietà tra la truppa e la folla è il punto più delicato e significativo nel processo chimico di ogni rivoluzione.”
A Bengasi lo Stato non è stato sconfitto in guerra: è scomparso. E così in tutte le città insorte. Tra il il 17 ed il 20 febbraio un terzo dell’esercito libico ha disertato, rifiutando di sparare sulla folla. A Tripoli però l’insurrezione non ha vinto: dopo il discorso prepotente di Seif Al-Islam Gheddafi, che molti speravano rappresentasse un’alternativa al padre, a partire dal 21 febbraio per diversi giorni i quartieri popolari hanno provato a sollevarsi e secondo Al-Jazeera nella capitale ci sono stati 61 morti. Questo ha aperto una fase di stallo che ha portato ad una svolta non solo militare ma soprattutto politica.
Infatti a Bengasi in quei giorni si è svolto un conflitto politico all’interno del campo degli insorti. Nella città liberata la popolazione ha cominciato ad organizzare tutte le funzioni della vita sociale, dalla raccolta dei rifiuti alla gestione del traffico. Naturalmente in mancanza di sindacati e partiti i gruppi armati e singoli individui “in vista” (cioè del ceto medio) hanno cominciato a giocare un ruolo crescente. Il 27 febbraio si è insediato il Consiglio Nazionale Provvisorio di Transizione, che qualche giorno dopo è stato riconosciuto addirittura da Sarkozy come solo rappresentante legittimo del popolo libico. Se visitate il loro sito web, vedete che sembra fatto apposta per piacere all’Occidente. Dice che il Consiglio è formato da 31 membri che rappresentano varie città insorte, anche se sono quasi tutti di Bengasi, un rappresentante dei prigionieri politici (Zubair Ahmed El-Sharif, discendente di re Idriss), un’avvocatessa in rappresentanza delle donne e un solo giovane, nonostante siano stati soprattutto i giovani a spendersi nell’insurrezione.
Di tre consiglieri vengono forniti dal sito anche i curricula, che penso siano rivelatori.
Mustafa Abdul Jalil, il presidente del Consiglio di Transizione, è un giudice che è stato presidente della Corte d’Appello fino al 2007, quando è stato nominato da Gheddafi suo ministro della Giustizia. Quand’è che il ministro Jalil si è accorto che c’era bisogno di fare la rivoluzione contro Gheddafi? A metà febbraio del 2011. Qualcuno di voi potrebbe averlo sentito parlare in diretta a Porta a Porta il 28 marzo, quando ha garantito a Vespa che se gli insorti vinceranno garantiranno non solo il rispetto dei contratti petroliferi firmati con l’Italia ma anche il Trattato Italo-Libico andando a caccia di migranti fin nel deserto.
Mahmood Jibril, il “primo ministro” del Consiglio, si è laureato al Cairo e poi ha fatto un master e un dottorato in Pennsylvania, diventando professore a Pittsburgh. Politicamente è di orientamento neoliberista. I cablogrammi di Wikileaks dimostrano che è da sempre l’uomo di Londra e Washington in Libia.
Alì Al-Issawi, il “ministro degli Esteri”, ha ottenuto un dottorato in Privatizzazione all’Accademia degli Studi Economici di Bucarest. È stato ministro dell’Economia, del Commercio e degli Investimenti sotto Gheddafi. Dal 2005 è stato il direttore generale del programma libico di privatizzazioni.
Ieri questo Consiglio ha pubblicato un programma politico. È una lettura interessante. Come riassunto, posso dire che si tratta di frasi molto generiche che definiscono un qualsiasi Stato democratico liberale, senza nessuna rivendicazione precisa sul terreno economico e sociale. Per quanto riguarda il tipo di economia che viene propugnata da questi signori, l’articolo 7b recita:
“Sviluppare un’autentica partnership tra un forte e produttivo settore pubblico, un settore privato libero e una efficace società civile, che prevenga la corruzione e gli sprechi.”
Non è chiaro quanto sia forte l’autorità di questi elementi filo-occidentali tra gli insorti. Alcuni indizi fanno pensare che in realtà non siano così ben visti. L’8 marzo Gheddafi ha lanciato un’offerta di tregua; l’ex ministro Jalil, il presidente del Consiglio di Bengasi, ha detto che gli poteva star bene. Immediatamente un gruppo di giovani ha preso d’assalto il quartier generale del Consiglio esigendo che ogni negoziato con Gheddafi venisse interrotto. Un altro consigliere, Fathi Baja, ha fatto questo commento: “Abbiamo un problema caratteriale con Jalil. Non ha una forte personalità, dovremo dargli dei consigli prima che parli”. Questo sarebbe il capo di una rivoluzione?
Oscillazioni di questo tipo si sono viste anche rispetto ad altri temi importanti. In una conferenza stampa tenutasi il 5 marzo i membri del Consiglio hanno preso posizioni diverse quando gli è stato chiesto se si sarebbe formata una gerarchia militare tra gli insorti o se avrebbero continuato a funzionare come un esercito partigiano. Chi conosce la storia della Guerra di Spagna o della Resistenza italiana, sa che non si tratta di questioni puramente tecniche. Alla domanda dei giornalisti su come sarebbe stato organizzato il Paese dopo la liberazione da Gheddafi, hanno ammesso di non saper rispondere: “Ci si penserà dopo” hanno risposto. Ma il tema su cui si sono viste maggiori divisioni è proprio quello dell’intervento straniero. Inizialmente la posizione espressa dai rivoluzionari, anche con dei cartelli esposti a Bengasi, era quella del rifiuto di ogni intervento straniero. Dicevano: “Il popolo libico ce la può fare da solo“. Immediatamente gli elementi più viscidi, come appunto Jalil e Jibril, hanno iniziato a chiedere dei bombardamenti aerei, ma per le proteste dei giovani rivoluzionari sono stati costretti a ritirare la richiesta, limitandosi a invocare una no-fly zone. Ma una no-fly zone è già un intervento militare…!
Questo approccio ha dirottato la Rivoluzione. L’idea è diventata non più spingere Tripoli ad insorgere, bensì conquistare militarmente la capitale, eventualmente con l’aiuto straniero. Come in altri casi storici, il motto è diventato “Prima la guerra, poi la rivoluzione“; tutte le volte che si è ragionato così, nel caso migliore si è vinta la guerra ma si è persa la rivoluzione; nel caso peggiore si è persa sia l’una che l’altra.
Questa impostazione ha spinto le masse della capitale alla passività, e anche alla paura dell’intervento straniero. I ribelli, che all’inizio promettevano la fine del regime di terrore di Gheddafi e dei privilegi della casta al potere, adesso sembra che vogliano soltanto sostituirsi a Gheddafi, e svendere il Paese agli stranieri ancora più di prima. Non sembra un obiettivo importante per cui rischiare la vita, e comunque anche chi è favorevole alla Rivoluzione a Tripoli a questo punto preferirà aspettare di vedere cosa succede con l’intervento occidentale. Dal punto di vista di molti soldati che ancora non avevano deciso come schierarsi, l’idea di fare una rivoluzione in collaborazione con le bombe e le diplomazie imperialiste suona come un’offesa al sentimento nazionale.
Ovviamente dalla popolazione di Bengasi la mozione 1973 dell’ONU è stata accolta come una buona notizia: sembrava garantire un po’ di sicurezza in più rispetto all’offensiva delle forze pro-Gheddafi. Ma il frutto di quella mozione è inevitabilmente l’intervento militare. Chi cerca di contrapporre l’ONU alla NATO o alla “coalizione dei volenterosi” si sta illudendo; l’ONU è sempre stata la foglia di fico delle grandi potenze, o nel caso migliore una camera di compensazione delle loro contraddizioni. Queste sono cose che possono interessare a chi vuole sapere se sarà l’Italia o la Francia ad ottenere le condizioni migliori per lo sfruttamento del petrolio libico; sono questioni su cui Berlusconi e Sarkozy sono in grave conflitto, ma per noi non fa molta differenza.
L’Occidente non ha alcuna credibilità come difensore della democrazia e della libertà dei popoli arabi.
Non si tratta solo della storia coloniale dei Paesi imperialisti, né del ruolo che questi hanno giocato in tutto il mondo arabo finora nel sostenere e armare i peggiori regimi autoritari o nell’appoggiare l’occupazione israeliana della Palestina. Si tratta più concretamente del sostegno dato allo stesso Gheddafi da governi come quello italiano e francese fino a pochi giorni fa. Si tratta del modo in cui gli Stati Uniti e l’Europa stanno rispondendo alle rivoluzioni in corso in altri Paesi arabi. Sono stati costretti ad intervenire per porre un’ipoteca sulla rivoluzione libica e sulle altre rivoluzioni, ma se fosse stato per loro avrebbero continuato a fare affari d’oro con Ben Alì, con Mubarak, con Gheddafi e con tutti gli altri.
Possiamo fare l’esempio del Bahrein, dove per schiacciare la rivolta dell’opposizione, che ha l’appoggio della maggioranza della popolazione, sono intervenuti 1500 soldati dell’Arabia Saudita e di altre monarchie del Golfo, senza che nessun governo occidentale pensasse di intervenire, nonostante gli Stati Uniti abbiano la loro marina militare ospitata proprio nella zona. Anzi, gli stessi Paesi del Consiglio del Golfo che hanno deciso l’invasione in sostegno al re del Bahrein fanno anche parte della coalizione che sta attaccando la Libia. Queste due azioni apparentemente opposte hanno in realtà lo stesso obiettivo: impedire che la situazione sfugga di mano, in un caso schiacciando la Rivoluzione, nell’altro caso cercando di prenderne il controllo e dirottarla.
Su Al-Jazeera ho letto un condivisibile articolo di Lamis Andoni, una giornalista palestinese, originaria di Betlemme:
“Muammar Gaddafi, il leader della Libia, se ne deve andare. Ma è decisivo che il suo rovesciamento avvenga per mano del popolo libico invece che come risultato dell’intervento militare occidentale nel Paese. L’intervento occidentale nel Paese ricorda le immagini della distruzione del’Iraq e riporta alla memoria il passato coloniale della regione. Inoltre, compromette lo spirito delle rivoluzioni che stanno scoppiando in tutto il mondo arabo, perché queste non hanno solo l’obiettivo di rimuovere dei dittatori ma anche quello di stabilire dei governi arabi liberi. E dei governi arabi liberi non possono essere imposti tramite l’interferenza occidentale. Nessun governo è libero se fin dalla sua nascita dipende da potenze esterne – potenze che, nel caso libico, hanno messo gli occhi sulla ricchezza petrolifera del Paese e sono motivate da interessi geopolitici.”
Ma in che modo può esistere un governo arabo veramente libero? Noi non crediamo alla teoria del “Risorgimento arabo”. Non siamo più nell’epoca delle rivoluzioni borghesi. Già il Risorgimento italiano avvenne in grande ritardo rispetto alla Rivoluzione Francese, e come conseguenza fu una rivoluzione incompleta, i cui frutti malati vediamo ancora oggi. Nel 2011 non è più possibile riprodurre la storia dell’Europa dell’Ottocento; in questi Paesi esiste già il capitalismo, ma soprattutto a livello mondiale il capitalismo non solo è già maturato, ma ha anche iniziato a marcire. I popoli arabi non sono soggiogati per colpa del feudalesimo, ma per colpa dell’imperialismo, ovvero dei Paesi capitalisti più avanzati, che non hanno nessuna intenzione di farsi da parte e aggiungere un posto a tavola. Ma soprattutto, non esiste una borghesia rivoluzionaria nel mondo arabo; le borghesie del mondo arabo sono già al potere e sono complici della situazione. Inoltre non sono in grado di unificare il mondo arabo perché ognuna preferisce tenersi la sua piccola fetta di potere; se non riesce la borghesia europea, molto più avanzata, a mettere da parte i propri ristretti interessi nazionali, come si sta vedendo molto bene in questi giorni con le tensioni geopolitiche e anche commerciali tra Francia e Italia, figuriamoci se può farlo l’ottusa borghesia araba.
Quindi o la Rivoluzione araba si evolverà e comincerà a mettere in discussione le radici sociali, economiche e storiche dei problemi che hanno portato alle rivolte, oppure si rivelerà un aborto, che saprà solo sostituire una forma di dominazione con un’altra. La conquista dei diritti democratici è importante e permetterà la riorganizzazione della sinistra e del movimento operaio in questi Paesi, ma di per sé non contiene la soluzione del problema. Ci sono guerre, c’è violenza, c’è povertà e c’è privilegio anche nelle democrazie occidentali. Anche nelle democrazie occidentali, e noi italiani lo sappiamo bene, esistono caste al potere che nuotano nell’oro circondati da cortigiane e pretoriani. Dal nostro punto di vista, l’unica soluzione è che questa rivoluzione rompa i confini tra i Paesi arabi e rompa anche i confini della proprietà privata, costituendo una federazione socialista di tutto il mondo arabo. Non è un’idea peregrina, è parte del dibattito di queste rivoluzioni, che hanno già un carattere panarabo e nelle quali sono presenti attivisti socialisti, comunisti, marxisti.
La Rivoluzione araba non finirà con la caduta del prossimo dittatore; si tratta di un processo che durerà anni, nei quali tutte le tendenze politiche e tutte le classi sociali verranno messe alla prova. Per certi versi il vero scontro comincia il giorno dopo l’insurrezione. Questo intervento militare, come quello in Bahrein, come la controrivoluzione in atto in Egitto e in Tunisia, sono le mosse che l’imperialismo e le classi dominanti arabe stanno facendo sulla scacchiera per far pendere la bilancia dalla parte della conservazione. Non sappiamo chi vincerà, ma credo che anche i lavoratori e la sinistra e quelli che lottano per la pace e contro l’imperialismo debbano fare la loro mossa. La partita è aperta.
Nel nostro Paese il governo, le forze politiche e sindacali, i mass media, le associazioni, gli intellettuali hanno aperto un dibattito sull’intervento armato. È un dibattito falsato perché pieno di luoghi comuni e di doppi giochi. Berlusconi appoggia l’intervento ma al tempo stesso si scontra con l’asse Parigi-Londra che vuole portar via all’Italia il predominio economico in Libia. La Lega ha preso una posizione di contrarietà all’intervento per motivi completamente opposti ai nostri. Lampedusa e la questione dei profughi mettono in luce l’ipocrisia della destra, che è favorevole ad “aiutare” i libici bombardando la Libia, ma dice che non ci sono abbastanza risorse per accogliere i profughi – come se invece le bombe, gli aerei e le basi militari non costassero niente. L’intera opposizione parlamentare è più interventista dello stesso governo. La sinistra moderata balbetta.
Dobbiamo iniziare la costruzione di un movimento che faccia sentire una voce diversa. Tante persone sono perplesse, dobbiamo aiutarle a capire e far sentire che c’è chi dice no. L’evolversi della situazione, l’estendersi delle rivolte e l’accumularsi delle vittime, smuoverà molte coscienze e molte intelligenze. Ma da qualche parte bisogna pur cominciare.
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