Cosa sta succedendo ad Afrin?
Diversi mezzi di comunicazione oggi hanno dato la notizia della caduta di Afrin, da alcuni giorni sotto assedio delle bande jihadiste e salafite che, sotto il vessillo usa-e-getta del cosiddetto «Esercito libero siriano» (ma in realtà inquadrati in Ahrar al-Sham, Sultan Murad, Noureddin al-Zenki e Tahirir al-Sham alias Al-Qaeda, nonché supportati da un buon numero di transfughi di Daesh), sono la fanteria dell’esercito turco che le accompagna con i suoi carri armati e la sua artiglieria e apre loro la strada con bombardamenti aerei e droni.
Anche molte persone vicine alla resistenza hanno condiviso post sulla caduta della città. In verità, secondo Ersin Cacksu, giornalista che si trova sul posto, le forze d’invasione controllano i quartieri di Mahmudiya, Ashrafiya, Kawa square e gli edifici attorno agli uffici del consiglio locale.
Non è al momento del tutto perspicuo cosa sia accaduto nella notte. Erdogan ha annunciato che Afrin è caduta, ma questa non può considerarsi una prova, tenuto conto che le notizie diffuse dal governo turco e dai media ormai completamente sotto il suo controllo sono state improntate in queste settimane a un’esagerazione unilaterale dei successi turchi e delle perdite della rivoluzione, oltre ad aver spudoratamente mentito (come hanno mostrato puntuali ricostruzioni video e fotografiche fornite dalla resistenza) sui continui massacri di civili e crimini di guerra, non ultimo il bombardamento dell’ospedale civile di Afrin. Al tempo stesso girano su Internet le immagini di soldati turchi che, trionfanti, esibiscono la bandiera turca sulla municipalità, in alcuni fotogrammi a fianco a quella dell’Els. Altri video mostrano miliziani islamisti camminare indisturbati per vie fantasma in quartieri periferici, gridando «Allah akbar!» in segno di vittoria.
In Rojava, nelle prime ore del mattino, girava voce che le Forze siriane democratiche avessero abbandonato la città. Sui social, tuttavia, sono presto arrivate le smentite: la poetessa curda Hawzhin Azeez ha condiviso uno status secondo cui le forze rivoluzionarie non hanno abbandonato Afrin e la Turchia non ne ha il controllo. La confusione è stata aggravata da un tweet di Saleh Muslem, uno dei portavoce del ramo diplomatico del Tev Dem, il movimento democratico che anima la rivoluzione dal 2012, che sembrava alludere a un ritiro delle Fsd : «Ritirarsi da una battaglia non significa perdere la guerra o rinunciare alla lotta». A questa dichiarazione era seguita quella di Hediya Youssef, co-presidente del consiglio costituzionale della Federazione della Siria del Nord, che aveva invece dichiarato : «la resistenza continua». Ypg International, il sito di riferimento per i combattenti internazionali delle Ypg, aveva poi annunciato che «le truppe turche e jihadiste sono entrate ad Afrin. Gli scontri continuano», concludendo con un richiamo all’azione diretta nel mondo.
Verso le 14.00 ora italiana l’annuncio della co-presidenza dell’amministrazione cantonale alla presenza delle Ypg, che seguiva di pochi muniti quella del loro portavoce ufficiale, Brusk Hasake. Secondo entrambi, il popolo di Afrin si è spostato nella regione di Sheeba, subito a est del cantone, per sfuggire ai bombardamenti turchi. Heval Brusk, in particolare, ha affermato che «il nostro compito era mettere in salvo i civili, ma non accetteremo l’occupazione turca e prepareremo un’offensiva per liberare Afrin». Non è chiaro, in definitiva, quanti siano i combattenti rivoluzionari ancora nella città e quanto possano impegnare le forze nemiche. In mattinata un’esplosione ha ucciso trentacinque tra miliziani jihadisti e soldati turchi. Due combattenti Ypj-Ypg, una donna e un uomo, erano stati catturati vivi e decapitati in piazza pochi minuti prima. L’amministrazione autonoma ha dichiarato che «la guerra è entrata in una nuova fase: la transizione tra lo scontro diretto e le tattiche di guerriglia ‘colpisci e fuggi’ è necessaria per scongiurare la perdita di altre vittime civile e per colpire il nemico».
La situazione ha iniziato ad aggravarsi nelle giornate tra giovedì e sabato. Da diversi giorni le unità nemiche si trovavano a 2 km da Afrin a nord-est, e avanzavano verso la città da sud-est. Un corridoio restava libero verso Manbij e la regione di Sheeba, ed è attraverso esso che migliaia di convogli di civili hanno cominciato a incolonnarsi sotto la supervisione delle forze rivoluzionarie. Nel frattempo già mercoledì e giovedì le bombe turche hanno fatto strage per le strade della città e l’ospedale di Afrin ha cominciato a non riuscire più a far fronte alle richieste di aiuto, fino a quando, nella mattinata di sabato, è stato colpito da tre missili turchi. Ci sono stati quindici morti accertati e decine di feriti. Questo evento ha reso chiara la strategia turca: non c’è spazio per i feriti, non c’è spazio per il diritto di guerra e il diritto internazionale, non c’è singola voce o istituzione che intenda eccepire su qualsivoglia azione portata avanti dalle forze d’invasione.
Di fronte a questa prospettiva trecento persone hanno lasciato la città muovendosi verso la vicina città di Jandaris. Questo è avvenuto sabato sera. Il convoglio procedeva lungo la strada ed aveva da poco lasciato Afrin, ed è stato a sua volta bombardato. Su questo immane eccidio non si hanno notizie precise, ma le forze rivoluzionarie parlano di cento morti, altre fonti dichiarano che «la maggior parte» degli sfollati è stata uccisa dalle esplosioni. Questo episodio dovrà essere indagato nel dettaglio, costituendo se confermato uno dei crimini più impudenti e atroci compiuti durante l’operazione, e senz’altro uno dei più scellerati dell’intera guerra. E’ in seguito ad esso che la situazione è mutata. Le forze rivoluzionarie che erano già impegnate a gestire il movimento di sfollati verso est hanno intensificato queste operazioni, cercando di mettere in salvo quanta più gente possibile. In questo frangente, nella tarda serata di sabato, milizie jihadiste hanno penetrato i quartieri deserti nel sud-est della città di Afrin, raggiungendo l’edificio del consiglio locale. Erdogan ha allora dichiarato (h 8.33) conquistata la città poco prima che le forze d’invasione subissero le maggiori perdite nella controffensiva, sebbene non vi siano notizie che lascino pensare un’imminente riconquista delle aree occupate.
Dopo la strenua resistenza delle campagne, dove un esercito popolare male armato è riuscito a tenere impegnata la seconda potenza militare Nato per due mesi, tutto lasciava prevedere una resistenza altrettanto agguerrita nella città. Le cose sono andate diversamente. La resistenza potrebbe continuare in queste ore sia ad Afrin che nei villaggi circostanti e per vie informali le Ypg hanno assicurato in questi giorni di avere in serbo « sorprese » per l’occupante. Ciononostante, la prospettiva della resistenza metro per metro, con il disastro umanitario che inevitabilmente vi sarebbe stato associato, è stata rifiutata dalla rivoluzione. Nonostante molti civili si rifiutassero di lasciare la città e chiedessero di restare, la violenza turca e l’assenza di realistici, possibili interventi da parte della comunità internazionale ha indotto le forze rivoluzionarie a non ritenere prioritario il dato politico rispetto alle perdite di vite umane tra la popolazione (che ha già patito in due mesi oltre 300 morti civili).
Questo non sta impedendo alle forze jihadiste di commettere crimini, abusi e torture ad Afrin come è avvenuto in questi mesi nelle sue campagne, tra uomini denudati ed esposti al ludibrio, donne mutilate e assassinate, decapitazioni e asassinii di civili e contadini. Il tutto nel quadro di un’azione di spopolamento del cantone che deve far spazio ai rifugiati oggi in Turchia, che Erdogan vuole ricollocare tra Afrin, Jarablus e al-Bab, ponendo sotto protettorato turco parte della provincia di Aleppo e regalizzando i miliziani jihadisti come forze di sicurezza nella zona. Il tutto avviene con il beneplacito delle Nazioni Unite, che sono arrivate ad accusare, tramite la portavoce dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani ONU, Ravina Shamdasani, le Ypg di «impedire ai civili di lasciare la città» e che nulla hanno detto su questo crimini, e degli altri stati mondiali e della regione; per non parlare del regime siriano, che ancora una volta mostra di essere ostaggio di una famiglia – quella del presidente – che intende le vicende della nazione esclusivamente come passaggi per mantenere il potere, anche quando ciò implica la cessione di territori (che erano controllati da forze che hanno sempre rispettato l’integrità territoriale siriana) a uno stato straniero.
Centinaia sono state le manifestazioni – non sempre con lo stesso livello di partecipazione, anche a causa della censura mediatica operata su questa vicenda – in tantissime città del mondo, ma anche le azioni militanti contro consolati turchi e aziende di armi esportate verso la Turchia. I mass media hanno ora ignorato queste azioni, ora ne hanno ricondotto la natura, come in Germania, a uno «scontro tra turchi e curdi». Lettura sbagliata: per quanto questo fenomeno non sia oggi in grado di sostenere un confronto all’altezza dei tempi sul piano dei rapporti di forza, incarna una nuova dimensione universale e globale di solidarietà militante, i cui i protagonisti – che non di rado hanno attraversato in varie forme la rivoluzione del Rojava – rappresentano le avanguardie di un internazionalismo per cui Afrin non è città amica per ragioni «etniche», ma per il tentativo di offrire soluzioni credibili e moderne ai problemi del mondo di oggi.
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