Crisi globale, capitale fittizio
di RAFFAELE SCIORTINO
Questo testo è la trascrizione dell’intervento al convegno “Crisi sistemica, neo-keynesismo, decrescita. Tra interpretazioni diverse e compiti politici unitari”, tenutosi a Milano il 24 novembre 2012 e organizzato dal laboratorio politico-culturale Alternativa (www.alternativa-politica.it)
Non è facile intervenire dopo i relatori che mi hanno preceduto anche perché si intrecciano molte questioni pregne di nodi teorici analitici e politici, anche. Provo a fare una riflessione che va al di là del piano delle relazioni internazionali, a un livello di astrazione che può sembrare più alto. Il titolo è crisi globale e capitale fittizio.
Condividiamo in gran parte qui l’idea della natura sistemica della crisi e dell’importanza politica della caratterizzazione della crisi in corso. Il nodo è: la risposta può limitarsi a quelle che nel gergo anglosassone in voga si definiscono policies? O non è un problema di programmi, soggetti e prospettiva alternativa? Senza dimenticare che tra i vari passaggi si situano dinamiche sociali reali: in che modo la crisi globale diviene crisi sociale e quindi quali dinamiche di costituzione dei soggetti nei conflitti emergono. Qui il ponte decisivo alla politica.
Partirò dall’architettura del capitalismo globalizzato, che si è rotta o più precisamente inceppata. Poi cercherò di entrare nel merito del perché si è rotta, con un accenno alle spiegazioni keynesiste da un lato e un’ipotesi di lettura, nulla più di questo, che rivisita il concetto marxiano di capitale fittizio dall’altro.
Una genealogia della globalizzazione
Sarebbe necessario partire da una genealogia della globalizzazione che qui non possiamo fare se non per un breve richiamo ai tre processi fondamentali che insieme hanno costituito -nel darsi delle strategie di risposta da parte dei poteri capitalistici globali, in primis Washington, alla crisi degli anni ’70- quegli assemblaggi che poi hanno fatto sistema.
Innanzitutto, il lungo ’68 nella duplice dimensione di lotte nelle metropoli, operaio massa e lotte generazionali di genere ecc., e delle lotte anticoloniali che hanno dato il là in certo modo al ’68 in Occidente. A fine anni ’60 gli Usa sono in seria crisi, sotto tutti i punti di vista: in questo quadro la coppia criminale Nixon-Kissiger dimostra una notevole lungimiranza, la capacità di delineare una Grand Strategy dell’egemone globale dentro un quadro bipolare in fibrillazione. Due i tasselli fondamentali, uno macroeconomico e l’altro geopolitico: fine di Bretton Woods con lo sganciamento dollaro-oro e la fissazione di un nuovo standard della moneta mondiale facendo leva sul dollaro liberamente fluttuante come moneta che entra nelle riserve valutarie di tutti gli stati e come mezzo di pagamento internazionale.
L’altro elemento è il rapprochement sino-americano: siamo in una fase in cui gli Usa stanno perdendo in Vietnam, l’Urss sembra in ascesa irreversibile e fa sponda ai movimenti anticoloniali, sembra emergere il soggetto in qualche modo unitario del terzo Mondo. Ebbene, la capcità di Nixon-Kissinger è quella di agganciare per una fuoriuscita il più possibile meno dolorosa dal pantano vietnamita -si inizia a parlare proprio in quegli anni di declino americano- la Cina maoista che tralaltro già da dieci anni aveva rotto con l’Urss, con uno scambio che allora sembrava prettamente geopolitico tra fuoriuscita dal Vietnam e mantenimento del containment anti-Urss, ma poi a partire dal ’79 acquisisce un significato anche geoeconomico con l’affermazione del denghismo e le riforme economiche che hanno reso possibile e insieme contemplato -le due mosse sono contestuali- l’inserimento subordinato della Cina Popolare nel mercato mondiale a guida Usa. Un passaggio fondamentale per quella che sarà la globalizzazione. Ecco la risposta della borghesia occidentale all’ondata di lotte degli anni Settanta, di qui il reaganismo, insieme questi fattori metteranno in estrema difficoltà sia l’Unione Sovietica – il ’79 è anche l’anno dell’invasione russa in Afghanistan, l’allora segretario alla difesa statunitense Brzezinski ha chiarito quale era il “tranello” architettato dalle teste d’uovo dell’amministrazione americana ai danni dell’Urss attirata nel gorgo afghano– sia il Terzo Mondo, non perché verrà meno il divario Nord/Sud ma perché viene meno quello che sembrava il costituirsi di un soggetto in qualche modo unitario al Sud, infatti l’ingresso della Cina nel mercato mondiale ha contribuito grandemente a questo sgretolamento politico del Sud del mondo.
E allora arriviamo attraverso gli anni ‘80 e ’90, la finanziarizzazione ascendente che ha trascinato tutti, compresa la classe operaia, e il momento unipolare statunitense inaugurato dalla guerra all’Iraq del ’90-’91, arriviamo alla costituzione di questa architettura (o sistema?).
“Disequilibrio bilanciato”
Lo schema che qui vedete è ricavato dal lavoro di un “keynesista di sinistra” : illustra quello che si è andato a costituire dagli anni Novanta se non prima e che viene definito da alcuni economisti Bretton Woods II, in riferimento e per differenza con quello che fu un trattato formale (Bretton Woods, 1944) -mentre qui si tratta di un’architettura informale- ma a indicare la sua profondità e sistematicità.
Questa architettura si incentra su un pilastro fondamentale: lo scambio tra i paesi in surplus commerciale, le officine del mondo, in primis la Cina dove le multinazionali Usa hanno investito e delocalizzato, e a catena la altre, che producono e vanno a vendere sul mercato Usa ma -ecco lo “scambio”- devono lasciare in loco, per così dire, una parte dei proventi finanziando così il crescente debito degli Usa, che dalla crisi degli anni ’70 sono usciti con un deficit in crescita e un dollaro moltiplicatosi nei cambi non più fissi del post Bretton Woods. I proventi sono quelli del plusvalore prodotto dalla classe operaia cinese e non solo cinese, perché intorno alla Cina si crea un vero triangolo industriale con Giappone e i paesi di nuova industrializzazione poi via via tutta l’Asia orientale. Una parte decisiva del plusvalore dunque va in Occidente con due modalità: perché le esportazioni cinesi contengono la parte appropriata direttamente dalle multinazionali che hanno investito lì, e una parte per finanziare il crescente doppio debito Usa. In due mosse successive, con politiche dei tassi opposte ma convergenti nel risultato finale che stiamo illustrando, cioè prima la mossa della Fed del ’79 con Volcker e poi invece coi tassi bassi dagli anni ’90, la Fed insieme al Tesoro Usa riescono a captare i flussi globali di valore. Questo proprio grazie al fatto che gli Usa sono diventati il primo debitore mondiale e usano il debito come arma di captazione di una catena globale di produzione che effettivamente si va internazionalizzando con una divisione del lavoro internazionale per la prima volta in re -non è tutto finanza, nb!- superando la configurazione imperialista di vecchio tipo.
Si parla a questo proposito di “riciclo dei surplus globali”: Cina, Giappone ecc. sono “costrette” per mantenere questo riciclo della loro produzione per l’estero, a usare il dollaro come riserva (tre trilioni oggi) e mezzo di pagamento. Un meccanismo complesso dove il capolavoro Usa è stato quello, sull’onda della crisi reale degli anni Settanta, di riuscire a finanziarsi col proprio debito, dentro una configurazione molto complessa, economica e geopolitica. Finanziando così i propri investimenti nel mentre si ha una relativa deindustrializzazione negli Usa e la delocalizzazione per cui l’industria statunitense in parte è in Asia, e poi la crescita del credito al consumo compensando così l’attacco al monte salari effetto della controffensiva capitalistica al ciclo di lotte dell’operaio massa, e infine gli enormi investimenti nel compact militare-industriale. Utilizzando anche i petrodollari della rendita petrolifera, giacchè con la crisi petrolifera del ’73 gli Usa riuscirono con accorte manovre diplomatiche e politiche a convogliare la rendita dei paesi produttori verso Wall Street. (Perdenti furono l’Europa e il Giappone). “Debito nostro problema vostro”, aveva detto già agli inizi degli anni Settanta il segretario del Tesoro Usa- ovviamente legato ciò alla capacità anche militare di mantenere il dollaro come moneta mondiale. Un capolavoro: un dollaro ora sopravalutato ora sottovalutato, da un dollaro scarso a un dollaro inflazionato, insieme compensando con il credito ai consumi interni l’attacco al salario diretto e indiretto.
Qui l’inizio della finanziarizzazione della vita, emerge infatti un aspetto fondamentale: la finanziarizzazione entra dentro la riproduzione della vita sociale delle classi lavoratrici e in generale di tutta la società, scompone e frantuma la vecchia composizione di classe, l’operaio di massa fordista , e la ricompone pro mercato lungo le linee dell’indebitamento e delle aspettative rispetto al consumo: la mia riproduzione come essere vivente e lavoratore non passa più attraverso strumenti di difesa collettiva dal mercato e dal padrone ma passa per il coinvolgimento e l’attivizzazione direttamente legata alle vicende del mercato o ai titoli azionari, ai fondi pensioni ecc.. Dobbiamo tener conto di questo per non essere nostalgici di un New Deal impossibile sia dal punto di vista capitalistico che dei soggetti sociali.
Provincializzare l’eurocrisi
Dentro questo riciclo dei surplus globali c’è anche l’Europa, in particolare la Germania. Negli anni Novanta, coi tassi di interesse bassi, abbiamo una finanziarizzazione in salsa europea che permette alla Germania di esportare anche nei paesi della periferia europea della sponda sud finanziando questo sbocco attraverso le banche, tedesche e francesi in primis, con una collusione tra classi dirigenti e borghesi del centro e della periferia. La creazione dell’area macroeconomica europea e l’approssimarsi dell’euro sta all’inizio dentro questo quadro di globalizzazione anche se la strategia europea e in particolare tedesca è anche di relativo “sganciamento” in prospettiva da questo meccanismo assai stretto che fa sempre capo a Wall Street. Questo è importante perché -al contrario di quanto pensano i keynesisti di sinistra- è vero che c’è un neomercantilismo tedesco verso la periferia europea ma sta dentro, è bene rilevarlo, questo meccanismo più ampio. Ed è quando questo si incrina che vengono fuori i problemi. Ciò va sottolineato perché dobbiamo provincializzare l’eurocrisi , il rapporto tra Germania e cosidetti Piigs sta all’interno di questo e non a sé.
Geopolitica della finanziarizzazione
Prima conclusione: il riciclo dei flussi di valore attraverso la finanza, la deregulation ecc. passa attraverso la securitization, la cartolarizzazione, che significa sostanzialmente il fare di un credito un titolo che posso replicare potenzialmente all’infinito e mi può dare quando tutto funziona – e ha “funzionato” altrimenti non capiamo la presa sulla gente – un cash flow, un flusso di reddito, sapendo che sotto c’è una filiera globale della produzione, la Cina ecc.
Dal punto di vista geopolitico, la cosa importante è che caduto il bipolarismo gli Usa diventano gli unici garanti dell’ordine internazionale. Ciò vuol dire che fungono da predatori in qualche modo, lo abbiamo visto, ma anche –e questo è riconosciuto non solo dagli alleati atlantici ma dalla stessa dirigenza cinese – sono garanti anche in senso sociale dell’ordine internazionale dove dovessero sorgere insurrezioni rivolte ecc., loro garantiscono per tutti, lavorano per il sistema, ovviamente con rapporti non solo di cooperazione ma di competizione. Walden Bello parlò negli anni Novanta di chain gang a proposito di Usa-Cina: o collaboriamo o… Qui la Cina svolge un ruolo subordinato: non credo assolutamente, se non passando per sconvolgimenti forti politici e sociali interni e una fortissima conflittualità con gli Stati Uniti, che Pechino possa ribaltare l’attuale quadro di subordinazione, pur nella crisi e con i timori occidentali della sua ascesa. Questo è un sistema ferreo: il problema è certo capire come si ristruttura o eventualmente si decompone nella crisi, ma le facili previsioni sull’ascesa del secolo cinese lasciano il tempo che trovano. È un tema anche politico: ricordiamo che negli anni ’80 il reaganismo crea la sua ideologia oltre che sullo stato “parte del problema e non della soluzione” anche sul “pericolo giallo” giapponese.
Dunque, l’insieme di questa situazione costringe tutti gli attori, in maniera differenziata ovviamente, a mantenere gli States liquidi e solventi. Questo è importante quanto alla capacità di reazione degli Usa all’attuale crisi, perché quando arriviamo a chiederci perché e fino a che punto si è rotto-inceppato oggi questo meccanismo, dobbiamo ricordare che già negli anni ’70 il declino relativo Usa, al di là del termine inadeguato perché naturalizza un processo storico, era comunque un processo reale: il che ci dice che la crisi è anche sempre un’occasione di ristrutturazione possibile degli assetti capitalistici e non è detto -v. l’ultima riflessione di Giovanni Arrighi sulla “biforcazione”- che a questo punto, quando non c’è più un fuori nella globalizzazione, valga la dinamica della successione delle egemonie.
Ancora keynesismo?
Quanto al neokeynesismo attuale, brevemente e rozzamente perché qui riduco uno spettro che invece è ben ampio, mi pare che individui la malattia nel greed di Wall Street – far soldi grazie a un “disequilibrio bilanciato” che intanto permetteva anche alle masse cinesi di incrementare i consumi e percorrere o illudersi di poter replicare un processo di proletarizzazione ascendente sulla falsariga della classe operaia occidentale – quindi nell’eccessiva avidità della finanza che ha perso i limiti volendo troppo e, quanto alle responsabilità della classe politica, nella deregulation ecc. I neokeynesisti di sinistra sottolineano inoltre il sottoconsumo delle masse (un elemento anche di altre analisi critiche: la caduta del monte salari complessivo). La terapia allora qual è? Ri-regolazione finanziaria, un maggiore controllo sugli eccessi speculativi, quindi il richiamo agli Stati e ricreare una “domanda sana”. Da questo quadro, si noti, non fuoriescono nella sostanza la proposta di una green economy e i progetti di riconversione ecologica. I problemucci però qui sono: 1. chi lo fa tutto questo quando si è completamente trasformato l’assetto sociale, e i rapporti di classe e di forza, le identità sociali assai diverse dal fu compromesso del New Deal, e come farlo quando gli Stati si sono ristrutturati nel senso di vettori e veicoli del “capitale fittizio” (v. sotto)? 2. La differenza tra speculazione e economia reale vale ancora nel capitalismo globalizzato e finanziarizzato? È possibile distinguere un deficit buono e uno cattivo, una spesa in deficit buona e cattiva, una moneta buona (come pensano i seguaci della MMT) e una cattiva e via discorrendo? Lo pongo come problema. 3. Quanto ai neokeynesisti europei, venendo all’eurocrisi e alla geopolitica della crisi, siamo proprio sicuri che fare keynesismo – seppur si potesse in senso “sociale”- è la stessa cosa per gli Usa che stampano moneta con la leva del dollaro da un lato e per la Bce e la Germania dall’altro, è solo questione di cattiveria o istinto suicida tedesco che impedisce di procedere in quel modo? Abbiamo cioè una piena intercambiabilità di politiche sulle due sponde dell’Atlantico? O ci sono delle asimmetrie fondamentali, non solo tra Usa e Cina ma anche verso l’Europa: stampare dollari e stampare euro non è la stessa cosa rispetto a chi capta valori “keynesianamente” messi in moto dalle immissioni di liquidità.
Capitale fittizio
Passiamo ora alla proposta di modello esplicativo che rivisita il concetto di capitale fittizio del III Volume del Capitale, a partire da un certo filone marxista, in particolare il marxista newyorkese Loren Goldner . L’obiettivo è di elaborare un diverso modello esplicativo in relazione a due esigenze: uno, stringere in un nesso unitario, senza confondere l’uno con l’altro, finanza da un lato e produzione dall’altro; secondo, non negare le novità delle metamorfosi del rapporto globale di capitale che dicevamo prima perché qualcosa è successo, non abbiamo semplicemente la riedizione della crisi da caduta del saggio di profitto, non che questo non sia reale e secondo più d’uno empiricamente rilevabile, ma è una visione riduttiva in qualche modo rispetto alle trasformazioni che dicevamo.
Cosa si intende per capitale fittizio? Marx parla di circolazione di titoli di credito, cioè titoli di proprietà di vario tipo che non rappresentano capitale ma sono diritti sui proventi della ricchezza futura. In che senso non rappresentano capitale? Nel senso che non contribuiscono all’accumulazione capitalistica, alla riproduzione allargata, non ogni aumento di capitale monetario è effettivamente accumulazione di capitale, scrive Marx. Allora possiamo definirlo così: è una massa di titoli (oramai una pletora in quantità e qualità oggi), di capitali denominata in titoli di credito che esige la propria valorizzazione ma da una base produttiva che non è in grado di soddisfare completamente o tendenzialmente questa esigenza, una base non sufficiente a esaudire questa promessa di valore, questa scommessa sulla futura ricchezza, è una capitalizzazione di utili che non si concretizzano. Perché non si concretizzano (ovviamente dovremmo parlare più di un divenire fittizio del capitale che di capitale fittizio come definizione data)?
Intanto rileviamo una cosa importante: è evidente che questo tipo di considerazione tiene conto del capitalismo come sistema di produzione e riproduzione sociale complessivo: il capitalismo produce e si riproduce “in comune”, è un comune perverso che utilizza per il valore la socializzazione del lavoro ma è una produzione comune. Tutto ciò non è astratto se vediamo oggi quanto il capitale sia in re internazionalizzato.
Ora, il punto fondamentale di questa rivisitazione, non che risolva tutti i problemi della spiegazione della crisi tanto più a livelli alti di astrazione come questi, ma il suo punto di merito è che ci dice che non siamo di fronte solo alla speculazione, al denaro che produce denaro, ma la scaturigine reale della produzione di capitale fittizio sta nella produzione immediata, nell’economia reale se vogliamo usare questo termine, cioè nel normale meccanismo della valorizzazione. Dov’è questa scaturigine reale? La cosiddetta tecno-svalorizzazione, cioè la perdita di valore del capitale fisso investito a causa degli incrementi di produttività, delle innovazioni tecnologiche e scientifiche, in generale della crescita delle forze produttive (il marxiano general intellect), l’ambivalente merito del capitalismo che però esso utilizza per la riproduzione del valore. Questa tecno-svalorizzazione (il capitale è valore in processo che tende sempre più a saltare la mediazione del lavoro vivo) è dovuta al meccanismo stesso, è immanente al capitale, e produce due effetti principali (semplificando al massimo un processo non lineare): 1. Il capitale fisso svalorizzato non scompare, non viene per lo più liquidato immediatamente a questa altezza dello sviluppo capitalistico, permane come titolo cartaceo, titolo di credito in quanto capitale monetario anticipato, alla ricchezza che verrà prodotta ma alla quale non contribuisce più (per illustrare questa tesi bisognerebbe riandare al capitale come sistema di produzione e riproduzione sociale complessivo, il “capitale sociale” cui accenna Marx nei passaggi del III Volume e dei Grundrisse nonché al nodo della sussunzione reale del lavoro e oggi della vita, della società intera sotto le relazioni capitalistiche allorchè queste permeano di sé, mercificano tutto l’esistente, uomo e natura) . Di qui la crescita pletorica di capitale fittizio, dunque. 2. L’innovazione tecnologica permette un maggior sfruttamento del lavoro e estrazione di plusvalore; il problema però è fino a che punto questo incremento di plusvalore riesce a compensare la crescita immane del capitale fittizio nel senso che secondo Marx ci sarebbero dei limiti qualitativi, che invece il capitale produttore pensa essere solo quantitativi, dovuti a due fattori fondamentali: la lunghezza della giornata lavorativa globale, e qui capiamo la globalizzazione e l’estensione numerica del proletariato che a un certo punto però devono approssimare dei limiti non potendo essere la giornata lavorativa maggiore di tot ore; secondo, quanto più il capitale innova e quindi è in grado di valorizzare, quanto più cioè ha ridotto la parte della giornata lavorativa che permette al lavoratore di riprodurre se stesso, quanto più quindi ha già ampliato la parte di pluslavoro, tanto più gli è difficile con incrementi e innovazioni tecnologiche e di produttività aumentare il plusvalore estratto.
È questo un livello molto astratto di analisi e non si pretende di raffigurare una situazione concreta, ma se è così si apre una dinamica interessante da cui guardare alla crisi globale. Abbiamo una crisi di valorizzazione per l’accumularsi di una pletora di capitale fittizio, di titoli di ricchezza che preme sulla valorizzazione e ne esigono una parte sempre più cospicua mentre al contempo c’è la caduta della profittabilità dovuta all’accrescersi della composizione organica del capitale. E allora abbiamo i fenomeni di sovraccumulazione, cioè c’è uno squilibrio, un gap crescente tra valore estratto e l’accumularsi di capitale fisso che si tramuta in capitale fittizio. Questo è il punto fondamentale, la crisi di valorizzazione: detto in una battuta, al di là dei passaggi argomentativi che qui ci vorrebbero, non è che i capitalisti decidono di far involare i propri capitali verso la speculazione perché lì i saggi di profitto sono più alti ma al contrario è perché c’è una crisi di valorizzazione nel meccanismo materiale dell’accumulazione che il capitale viene stornato nella sua fame di profitto verso quella che viene chiamata la speculazione. Ovviamente poi su questo incide il movimento per così dire autocatalitico della speculazione per cui più investi in questo settore più i prezzi salgono e via di questo passo… Qui si inseriscono gli aspetti istituzionali politici ecc. ma al fondo il nesso non è quello della speculazione che attrae ma della speculazione che è possibile perché c’è una crisi del valore.
Disconnessione della riproduzione sociale
Se è così ci spieghiamo la “fuga dalla produzione” ma soprattutto questi fenomeni cui accenno solo: una accresciuta pressione verso la proletarizzazione di crescenti masse umane (v. Cina) riducendone il valore della f-l al di sotto delle esigenze della riproduzione degli stessi lavoratori; sfruttamento della natura e cosiddette esternalità negative; utilizzo degli impianti, del capitale fisso ben oltre i tempi di ammortamento, gli impianti non vengono rinnovati. (Da un lato il Tav dall’altro il caso Ilva Taranto). Questo non ci dà un sistema stagnante ma parossistico che sfrutta sempre di più ma come se iniziasse a girare a vuoto senza “declino” ma con delle scosse sussultorie da tutti i punti di vista, economico sociale e politico. Qui rientra la ripresa dei meccanismi dell’accumulazione originaria di marxiana memoria, questo è un dato acquisito nell’elaborazione marxista degli ultimi decenni: cosa sono le nuove enclosures?! Ben oltre le vecchie, proprio perché è necessario al capitale per stornare verso il vampiro del capitale fittizio sempre più quote di valore. Qui due fenomeni fondamentali non voluti che ci spiegano la soglia oltre la quale scatta la crisi: la contrazione, il non rinnovo della riproduzione sociale materiale, per cui la base produttiva diviene troppo esigua per sfamare la pletora di capitale fittizio, e dall’altro lato la disconnessione tra questo capitale accumulato e la riproduzione della specie umana, della natura e della società. Cosa vuol dire concretamente? Nella storia del capitalismo, attraverso i conflitti delle classi lavoratrici che hanno ottenuto dei compromessi, si è addivenuti ad uno scambio: ti distruggo i mezzi di riproduzione della tua vita, i commons, tu ti lasci forza-lavorizzare e in cambio grazie alla crescita, alla scienza ecc. ti darò un salario che soddisfa le vecchie esigenze di riproduzione e anche le nuove. Questo è stato un processo materiale, non ideologico: se la classe operaia è arrivata a fare compromessi sociali non è perché i capi hanno “tradito” la rivoluzione. Oggi tutto ciò inizia a saltare: è per così dire il processo del divenire-superflui degli esseri umani rispetto all’accumulazione cap. Questo è un fenomeno relativamente nuovo (basta pensare all’impossibile proletarizzazione dei restanti sette-ottocento milioni di contadini cinesi, agli slums ecc.). Secondo, inizia a saltare un altro scambio: quello tra proletarizzazione, mercificazione delle capacità lavorative da un lato, accettazione della distruzione dei commons dall’altro. Quello che stiamo vedendo, dall’America Latina a fenomeni in piccolo anche qui da noi (Valsusa), è che io massa individualizzata non credo più che se mi distruggi la natura, privatizzi ecc. ci sarà un ritorno in termini di salario e lavoro. Su questi due piani iniziano a venir fuori i problemi per il capitale.
Per tutte queste ragioni il capitale fittizio è consustanziale ai processi di produzione reale: cari neokeynesisti di sinistra, se volete crescita non sarà senza bubble. Inoltre qui gioca la ristrutturazione degli stati nazionali: anche lo stato del compromesso fordista-keynesiano era uno stato di classe, per ovvi motivi, ma si basava grazie a una fortissima conflittualità e due guerre mondiali, appunto, su un compromesso sociale, declinato in vari modi. Oggi gli stati sempre più si palesano come esattori della ricchezza sociale da stornare per tenere in piedi il capitale fittizio. Quando ragioniamo sul debito e sulla lotta al debito, allora, dobbiamo riflettere su cosa vuol dire “risanare”: ci richiamiamo agli stati per un rinnovato compromesso di vecchio tipo -impossibile se stiamo alla nostra analisi- o non dobbiamo iniziare a pensare nei termini di riappropriazione dei mezzi di produzione e riproduzione della nostra vita? Questo apre a tutta una serie di nodi politici e sociali qui non toccati.
Crisi globale
A conclusione, brevissimamente, come hanno risposto fin qui le forze globali. Primo, devono evitare in tutti i modi la svalorizzazione del capitale fittizio e allora immissioni di liquidità, bad banks, scarico sui bilanci pubblici -Fed e Bce in maniera differente- mentre viene svalorizzato il lavoro, la forza-valoro, e vanno avanti con le nuove enclosures. Qui sono tutti d’accordo: Merkel e Obama, per intenderci. Il problema che già si dà in questa prima fase della risposta -quella immediatamente successiva al panico dopo la caduta Lehmann- è che bruciare semplicemente il capitale fittizio, far fallire le banche, ecc. è ingestibile per la borghesia proprio per l’intreccio con la produzione reale e con le dinamiche sociali che abbiamo detto.
Dopo di che viene però fuori il vero problema, che è la fase che si va ad aprire soprattutto con la seconda amministrazione Obama: hai salvato il capitale fittizio, bene ma questo ti ritorna, hai caricato i bilanci pubblici dei toxic assets, bene la speculazione ritorna alla carica proprio sui debiti sovrani (soprattutto quelli europei, non a caso…). A questo punto che si fa? C’è la necessità a questo punto di svalorizzare, ne stanno discutendo ai piani alti, una parte più consistente rispetto al deleveraging già attuato soprattutto negli Usa nel privato, ma con accollamento da parte del bilancio pubblico. Non basta: l’Economist non è da ora che batte sul tasto “crescita”, il debito non è un problema in sé se riparte la crescita. Ma non può ripartire la crescita con questa pletora di capitale fittizio! Questo è interessante anche per le proposte di green economy: mettiamo che Obama nel secondo mandato riesca a portarla avanti, ma i capitali investiti p. es. nell’auto rimarrebbero tutti, solo però come capitale fittizio, e andrebbero nutriti, cioè la green economy non risolve nessuno dei problemi di fondo, può tamponare la crisi sociale ma non risolve, al di là di quello che si aspettano gli europeisti a stelle e strisce filo-obamiani. Ecco allora iniziare lo scontro tra attori globali, tra grandi potenze, sulla svalorizzazione: chi deve svalorizzare di più? Chi riuscirà a scaricare sugli altri gli effetti negativi della svalorizzazione? Io mi tengo il mio credito ma il mio debito diventa un problema degli altri… (v. il dollaro inflazionato per monetizzare l’enorme debito statunitense). Qui gli Usa possono impunemente fare queste manovre senza mettere a rischio il dollaro come moneta mondiale? Lo possono fare se l’euro va a carte quarantotto, di qui l’attacco ai debiti sovrani europei, la currency war, e se ne sta accorgendo anche la Cina, il Brasile ecc. ecco le determinanti profonde -da non estrapolare dal quadro complessivo ma ben definite- dello scontro tra dollaro e euro, Washington e Berlino se non Europa.
E prima o poi si porrà un problema non solo di distruzione contabile dei valori cartacei ma di distruzione reale del capitale fisso e variabile, cui del resto abbiamo assistito nel Novecento con le due guerre mondiali. E qui ritorna in pieno la questione guerra o pace…
(Trascrizione rivista dal relatore)
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