Della guerra in Siria: caos diffuso, nuovi equilibri o cosa?
di rk
Nella deriva apparentemente inarrestabile del Medio Oriente verso il caos – perseguito o meno, e da chi, essendo la questione che aleggia sullo sfondo – ecco dunque inserirsi l’intervento militare diretto della Russia a sostegno del governo di Damasco. Comunque lo si valuti, e con la cautela indispensabile per una situazione complessa e in continuo movimento, una cosa sembra certa: esso si pone frontalmente contro la strategia del regime change statunitense in Siria e, se dovesse riuscire sul piano militare e non solo, ne segnerebbe il fallimento quanto meno sul medio termine con ripercussioni locali e globali tutte da vedere.
In realtà, la strategia Usa in Siria aveva già mostrato numerose falle. Due le ragioni principali: l’assenza di truppe fidate sul terreno in grado non solo di disarticolare lo stato siriano – per questo sono bastate le milizie islamiste armate e addestrate direttamente o tramite Turchia e Arabia Saudita – ma di sostituirlo; e la resistenza di Damasco, supportata da Hezbollah e aiuti russi ma evidentemente anche da un persistente seppur passivo consenso popolare, che è stata ben altra cosa rispetto a quella di un Gheddafi in Libia. Senza contare che nel caso siriano a frenare la corsa di Obama al regime change si sono mossi, dietro le quinte ma fermamente, anche attori internazionali quali la Cina (precedentemente scottata proprio dal caso libico) e il Vaticano.
Ciò non toglie che quel minimo accenno di Primavera araba che si è dato in Siria (ammesso pure che si sia dato) è stato subito cannibalizzato dalle guerriglie jihadiste e dagli appetiti delle fottutissime petrolmonarchie, con la Turchia a fare da base logistica (ma finora con un ben misero ritorno) e Israele a godersela (della tacita alleanza dello stato ebraico con i “custodi dei luoghi santi” dell’Islam si parla oramai senza peli sulla lingua: http://www.jpost.com/Opinion/Syria-and-the-US-431750). Nel mentre Damasco è via via apparsa meno in grado di rovesciare da sola la situazione sul terreno. Risultato: quella che doveva essere la versione in salsa araba delle rivoluzioni colorate si è subito risolta in un caos distruttivo che ha fatto in pochi anni della Siria l’ennesimo failed state della regione (dopo Iraq e Libia, appunto), con l’Isis “mostro provvidenziale” – come scrive efficacemente Limes – usato da Usa&c. ora come racket mafioso in loco ora come bersaglio di facciata per l’opinione pubblica occidentale (http://www.infoaut.org/index.php/blog/global-crisis/item/12839-il-califfato-non-esiste). Confondi e domina…
Tutto ciò non deve affatto dispiacere a Washington se è vero che il riorientamento geopolitico statunitense verso un nuovo contenimento della Cina – ribattezzato dal Dipartimento di Stato pivot to Asia, ma dal Pentagono più eloquentemente long war – prevede programmaticamente di lasciarsi alle spalle situazioni di caos lungo tutto l’arco di instabilità (Brzezinski dixit) che circonda la Cina (e la Russia) per potersi concentrare in Asia Orientale (al riguardo può essere utile questo video). Nello specifico, per il Medio Oriente la presidenza Obama ha puntato da un lato, appunto, a situazioni di caos diffuso tipo Libia (vi rientra la Siria, in subordine a un regime change al momento impossibile), dall’altro un precarissimo gioco di bilanciamento di potenza tra gli attori regionali principali (Arabia S., Turchia, Iran, Israele, essendo l’Egitto fortemente indebolito) con Washington a fare da ago della bilancia senza eccessivo impegno diretto e a dispensare al momento opportuno sorpresine anche agli “alleati”. L’accordo con Teheran sul nucleare si inserisce in questo disegno (per quanto ricadute e dinamica evolutiva non siano per nulla prestabilite e alcuni dei suoi punti probabilmente non resi noti).
Ora, è evidente che l’intervento russo in Siria, inquadrandosi in una strategia che punta alla permanenza statuale di Siria e Iraq in funzione di un ruolo in proprio nella regione, non può che mettersi di traverso ai piani statunitensi. Più che elencare gli obiettivi che stanno alla base della decisione di Putin, già scandagliati dagli “esperti” (sia pure con un generalizzato pregiudizio anti-russo), è allora utile individuare alcuni scenari di possibile evoluzione della situazione per poterne valutare risvolti geopolitici e ricadute.
Un primo scenario è quello dell’impantanamento di Mosca nel caos siriano sulla falsariga della vicenda afghana in epoca tardo-sovietica. È quello perseguito da Washington, perlomeno da alcuni circoli dell’establishment politico-militare à la Brzezinski. In astratto ce ne sarebbero le condizioni. Ma in concreto le due situazioni sono solo lontanamente comparabili. Questa volta Mosca può appoggiarsi in loco a un fronte che va da Teheran a Hezbollah mentre non ha una spina nel fianco quale fu allora il Pakistan né i jihadisti possono vantare in Siria-Iraq di un largo consenso neanche tra i sunniti. Turchia e Arabia Saudita hanno non pochi problemi al loro interno e non paiono in grado di contrapporsi militarmente all’impegno russo-iraniano senza un più deciso intervento statunitense. Soprattutto, non tutti i paesi occidentali si schiererebbero compatti per lavorare a questo risultato. Se non probabile, comunque, è un’ipotesi che non va esclusa soprattutto se i tempi della “normalizzazione” russa della Siria dovessero prolungarsi.
Lo scenario opposto è quello di una stabilizzazione della Siria a seguito di una vittoria russa sul campo – di per sé del tutto possibile in termini militari – in grado di imporre un compromesso internazionale sul futuro politico del paese. Il che non solo farebbe da viatico per un nuovo ordine regionale meno caotico ma rappresenterebbe un primo passo verso la multipolarizzazione dell’intero sistema internazionale con controbilanciamento del predominio statunitense. Ora, il problema è che ciò presupporrebbe una serie di condizioni che non sono né date al momento né semplici conseguenze lineari dell’intervento russo. Partendo dal quadro regionale, ci vorrebbe innanzitutto un’alleanza effettiva e organica tra Mosca e Teheran laddove al momento assistiamo piuttosto ad una convergenza nel ridimensionare le pretese saudite e, in parte, israeliane mentre al contempo non può essere del tutto escluso un percorso di complessivo rapprochement tra Iran e Usa a partire dall’accordo sul nucleare. In Siria, poi, per il riavvio di una vita economica e sociale normale sarebbe necessario un forte investimento economico oltre al prosciugamento del bacino di disperazione che alimenta la militanza jihadista, dentro e soprattutto fuori il paese: un doppio sforzo che da sola la Russia non è in grado di mettere in campo, a meno di coinvolgere attivamente – e qui siamo sul piano globale – Cina e alcuni paesi europei (alias la Germania). Ma questa prospettiva scatenerebbe la reazione violentissima di Washington e non pare sul breve-medio periodo realistica; senza contare che neppure Mosca ha già fatto il salto definitivo su posizioni anti-occidentali, puntando bensì a ricontrattare la sua collocazione internazionale geopolitica ed economica. Sul lungo periodo poi tutto dipenderà dal successo o meno della strategia cinese delle nuove vie della seta, fondamentale per una autonomizzazione di Pechino dal vincolo-subordinazione al dominio del dollaro.
Il terzo scenario, intermedio, esclude una effettiva stabilizzazione del Medio Oriente ma non che si possano determinare, o si stiano già determinando, nuovi equilibri. Se Mosca vince militarmente contro l’Isis, e dunque contro i suoi padrini, diviene oltremodo difficile per i Saud, gli Erdogan e Israele continuare la guerra per procura sotto protezione yankee e, più in generale, la disarticolazione permanente dell’area, dallo Yemen alla Libia (dove l’Egitto non a caso già sta ponendo diversi problemi alla manomissione saudita e qatarina). Lo stesso voto turco va letto non secondo le lenti liberal occidentali, ma prevalentemente come mandato popolare al “nuovo padre della patria” per un ritorno sulla via dell’ordine e della crescita economica, il che a ben vedere non lascia molto spazio ad avventure militari all’esterno (che poi Erdogan lo voglia capire è un’altra questione). Sull’opposto fronte, l’intruso russo rafforza l’asse sciita, dall’Iran al Libano passando per l’Iraq (o quello che ne resta), mandando all’aria i piani Usa. (E’ invece più incerta la risposta dei curdi, oggettivamente in bilico difficilissimo tra nemici storici e pericolosamente esposti alle sirene americane, tanto più visto il quadro turco). Al contempo, è già in atto un certo riorientamento di Berlino che – anche a partire dalla questione profughi, un flusso tutt’altro che “spontaneo”… chi vuol intendere intenda – ha abbandonato la precondizione anti-Assad e non vede male il diffondersi in Europa di un sentimento a favore dell’azione russa anti-Isis. (Anche questa è una novità: il tentativo russo di recuperare per sè la narrazione occidentale “contro il terrorismo” riceve per la prima volta un certo, ancorchè minimo, ascolto).
Ma l’eventuale vittoria russa potrebbe essere confermata solo da una strategia di consolidamento. Mosca non ha però un potenziale imperialista di sfruttamento né un apparato industriale all’altezza della tecnologia militare: senza il contributo della Cina i nuovi, potenziali equilibri maturati sul terreno non potrebbero durare. E così torniamo ai nodi del secondo scenario. Obama comunque non sta certo con le mani in mano e mentre cerca provvisoriamente un compromesso prima che la situazione precipiti a vantaggio di Mosca e Teheran – come con il recente accordo a Vienna – sta ricalibrando l’intervento Usa nell’area e, soprattutto, intensificando l’azione anti-cinese, dalla firma del Trans-Pacific Partnership alle provocazioni militari nel mar Cinese Meridionale. Si tratterà poi di vedere cosa verrà fuori dalle elezioni del prossimo anno.
Insomma, è l’insieme del quadro mediorientale che si è messo in movimento. Ma anche la ricerca di nuovi equilibri da ricontrattare con Washington – dato il quadro di una crisi economica globale che si appresta a riacutizzarsi – non farà che approfondire tutti i contrasti, anche sul piano delle relazioni sociali di classe. Che poi questo riapra le possibilità di un nuovo discorso internazionalista – che non potrà che essere in primis (non esclusivamente) anti-yankee in quanto anticapitalista (filo-russi o filo-altro avvisati), e proprio il Medio Oriente ci dice quanto ciò sia un’acquisizione difficile e precaria – dipenderà anche dal quando e come le ondate di caos per ora rigettate violentemente all’esterno ritorneranno in Occidente. Speriamo presto.
nov ‘15
vedi anche:
Spigolature geopolitiche (2.1) – Guerra del petrolio? (dicembre 2014)
Spigolature geopolitiche (1.1) – Berlino batte un colpo? (giugno 2014)
Spigolature geopolitiche (1.0) – Ucraina e nucleare (maggio 2014)
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