Gaza, verso una seconda piombo fuso?
Chiara Cruciati per Nena News
Ieri terzo giorno di bombardamenti: la Striscia di Gaza è una polveriera. Il bilancio è salito ieri a 15 morti e almeno 44 feriti. Tra le vittime un ragazzo di 13 anni, un bambino di cinque e uno di due. È la risposta israeliana all’attacco di giovedì ad Eilat, dove un commando palestinese ha aperto il fuoco contro un autobus e due auto provocando otto vittime. Le autorità di Tel Aviv non retrocedono: la responsabile è Hamas, Gaza va punita. E mentre Apache e F-16 dell’aviazione israeliana proseguono nei bombardamenti a tappeto, distruggendo case, fabbriche, parchi gioco, Hamas si prepara a reagire. Il gruppo ha annunciato ieri la fine del cessate il fuoco, in vigore da due anni. Le Brigate Al-Qassam, braccio armato del partito che controlla la Striscia, riprendono la lotta: «Non esiste più alcuna tregua con l’occupante israeliano di fronte al massacro commesso contro la popolazione palestinese senza alcuna giustificazione. Chiamiamo tutti i gruppi ad unirsi nella lotta contro i crimini d’Israele».
Si muove anche Fatah. Ieri il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, ha chiesto al Consiglio di sicurezza dell’Onu una riunione d’urgenza. Il funzionario dell’Olp, Saeb Erekat, ha fatto sapere che Abbas ha autorizzato l’inviato palestinese all’Onu, Riyad Mansour, a domandare un incontro urgente per fermare «la pericolosa escalation contro la Striscia di Gaza e l’uccisione di civili». L’Anp ha chiesto un meeting anche alla Lega araba, incontro che si terrà oggi a mezzogiorno con la partecipazione dei membri permanenti. Un portavoce di Fatah, Fayiz Abu Aita, ha detto ieri che il partito prenderà tutte le misure necessarie a difendere la popolazione di Gaza, chiamando le fazioni palestinesi ad unirsi «contro il massacro di bambini, donne e anziani». «Il governo israeliano vuole superare così la sua crisi politica e ostacolare l’accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas».
Un attacco, quello israeliano, senza quartiere e senza tregua: l’aviazione sta colpendo innumerevoli target a Gaza City, a sud al confine di Rafah e a Khan Younis, a nord a Beit Hanoun. Distrutti due tunnel usati dai miliziani, secondo Israele, per lanciare razzi e un magazzino di armi, mentre i Qassam dei Comitati di resistenza popolare hanno centrato Be’er Sheva e Ashdod, provocando il ferimento di tre lavoratori palestinesi e otto israeliani. Secondo la radio israeliana, sarebbero 35 i missili Grad e Qassam lanciati da giovedì oltre il confine, di cui 12 rivendicati dall’ala militare del Fronte popolare di liberazione della Palestina. Critica la situazione negli ospedali: tra i feriti 11 bambini e 10 donne. Fonti mediche parlano di strane lacerazioni riscontrate sui feriti: oltre alle ustioni provocate dalle bombe, la pelle è strappata. Un indizio che ricorda le lesioni delle vittime dell’Operazione Piombo Fuso, quando Israele utilizzò bombe al fosforo, considerate illegali dalle convenzioni internazionali.
Ieri sono scoppiate proteste contro l’attacco anche in Cisgiordania. A Ramallah un gruppo di dimostranti si è ritrovato in Manara Square sventolando bandiere palestinesi e condannando l’operazione. Un’escalation di violenza che Mustafa Barghouti, attivista democratico palestinese candidato al Nobel per la pace nel 2010, ha definito la soluzione perfetta ai problemi interni del governo israeliano: «Israele ha pianificato l’attacco alla Striscia di Gaza per sfuggire alla crisi sociale in atto nel paese e alla crisi diplomatica con gli Stati uniti».
Ai crucci interni del premier Netanyahu, va aggiunta l’imminente scadenza di settembre, quando l’Anp chiederà ufficialmente all’Assemblea Onu il riconoscimento dello Stato di Palestina. Insormontabili i no già annunciati, ma Israele non può permettersi di correre rischi e prepara il terreno. Ieri ilministro degli esteri, Avigdor Lieberman, ha accusato l’Anp di sponsorizzare il terrore a sud di Israele: «Gli eventi degli ultimi giorni lo dimostrano: la retorica palestinese, per cui professano di aver abbandonato il terrorismo in favore della diplomazia, è distante dalla realtà quanto Ramallah è lontana dal Palazzo di vetro a New York».
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