Il teatrino delle elezioni Israeliane: un altro modo per nascondere il genocidio in Palestina
L’altro ieri, due marzo 2020, si sono svolte per la terza volta in meno di un anno le consultazioni elettorali in Israele. Lo abbiamo già scritto: le elezioni in Israele si svolgono sotto un regime di apartheid coloniale. Quasi 5 milioni di palestinesi vivono in Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme, le loro vite sono direttamente controllate da Israele tuttavia non possono votare. Contemporaneamente più di 600.000 coloni israeliani, illegalmente residenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, hanno il diritto di voto. In Palestina si crea quindi una situazione paradossale, in cui i palestinesi vivono attorniati da colonie illegali sioniste, i cui abitanti sono gli unici a poter decidere delle loro sorti.
Questo giro di giostra ha seguito lo stesso copione del precedente ha visto scontrarsi Benjamin Netanyahu del Likud contro Binyamin Gantz del partito Bianco e Blu per la conquista del potere nello stato di Israele e del conseguente dominio sulla popolazione palestinese priva del diritto di voto.
Il dibattito della scorsa campagna elettorale si era concentrato prevalentemente sulla correttezza istituzionale e aveva penalizzato Netanyahu in quanto imputato in un processo per corruzione. Stando ai risultati quasi definitivi di oggi la situazione è cambiata, se alle scorse elezioni si era ottenuto un sostanziale pareggio tra i due maggiori partiti, a queste consultazioni è stata decretata una quasi vittoria di Netanyahu. Al 99% dei voti scrutinati il Likud avrebbe 36 seggi (intorno al 30% dei consensi), il partito Bianco e Blu conquisterebbe 33 seggi (intorno al 27% dei consensi), la Lista Araba Unita si qualificherebbe invece come terzo partito con 15 seggi. Le altre compagini che entrano in parlamento sono: Shas, unione degli ultraortodossi sefarditi e mizrahi, con 9 seggi, Giudaismo Unito nella Torah, partito degli ultraortodossi askenaziti, con 7 seggi, come i labouristi-liberali e l’ultradestra laica Ysrael Bitenu di Advigor Liberman, ultimo sarebbe Yamina, l’alleanza della destra religiosa, con 6 seggi.
Per quanto questi risultati possano sembrare una sostanziale parità tra i maggiori partiti, in realtà il blocco di destra del Likud otterrà, si presume, 59 seggi: soglia vicina alla maggioranza assoluta, 61 su 120, del parlamento unicamerale Israeliano. La possibilità più accreditata, che traspare anche dalle prime dichiarazioni pubbliche di oggi, è che il premier uscente riesca a convincere qualche “responsabile” per la stabilità della nazione. In questo modo allontanerebbe la possibilità di un’alleanza tra i due maggiori partiti, la quale si renderebbe possibile solo con un “passo di lato” da parte di Netanyahu. Tuttavia l’interesse di Netanyahu è rimanere premier, come spesso succede, per fattori personalissimi quale avere una posizione di potere per condizionare il processo di corruzione a suo carico.
Per capire come sia stata possibile la vittoria del primo ministro uscente occorre guardare allo svolgimento della campagna elettorale permanente che nell’ultimo anno si è giocata sulla pelle dei palestinesi. Abbiamo infatti accennato che lo sfidante Gantz si è presentato come liberatore delle istituzioni democratiche dagli interessi personalistici del leader del Likud. A questa retorica se n’è contrapposta un’altra, quella della “credibilità” diplomatica della quale ha fatto bandiera il presidente uscente.
Una grande influenza in questa credibilità è stata garantita dal cosiddetto “piano del secolo”, la proposta di pace di Donald Trump della quale abbiamo già parlato come di una continuazione del colonialismo con altri mezzi. In questa sede è interessante analizzare un particolare che ci era sembrato un dettaglio marginale: la presentazione del piano di pace alla casa bianca era stato annunciato alla presenza dei due leaders dei maggiori partiti politici, i quali avevano raggiunto risultati elettorali pressoché identici ma non erano riusciti a formare un governo. Tuttavia il piano era stato presentato solo alla presenza di Netanyahu, primo ministro in pectore, con la promessa di discutere con Gantz i dettagli del piano in Israele in un altro momento. Inutile sottolineare come questo abbia garantito al primo ministro Israeliano di capitalizzare in voti la visibilità ottenuta. Inoltre è utile ritornare su un concetto che abbiamo già sottolineato nell’analisi del piano: la proposta di pace è parzialmente coincidente con il progetto di annessione della valle del Giordano e delle colonie in Cisgiordania promesso dal leader del Likud durante la scorsa campagna elettorale. Inoltre la figura del leader del popolo perseguitato dal giustizialismo delle elites liberal-democratiche è un ritornello sul quale la stampa Israeliana vicina al Likud ha costruito una serie di analogie sul piano internazionale. Si veda ad esempio il paragone congegnato dal giornale “Israel Hayom” tra Matteo Salvini e Benjamin Netanyahu, del quale abbiamo brevemente accennato in un altro articolo sul razzismo sionista della Lega.
Questa strategia legata al riconoscimento internazionale è passata dunque da endorsment incrociati, non nuovi alla strategia elettorale Israeliana. Trump infatti otterrà una restituzione economica ed un appoggio politico delle organizzazioni sioniste alle elezioni presidenziali del prossimo Novembre. Tuttavia questa strategia ha anche elementi di novità, come la costruzione di legami inediti con l’estrema destra europea razzista e sionista e l’alleanza con Narendra Modi, primo ministro indiano, vicino ai fondamentalisti indù, con il quale stringere un patto in chiave anti-islamica. Riconoscimento internazionale in Israele significa, dunque, l’autorizzazione dell’imperialismo statunitense a stringere il cappio genocida nei confronti del popolo palestinese e l’alleanza con i razzisti occidentali e orientali contro il comune nemico musulmano: rappresentato sempre più spesso come l’elemento inquinante della purezza etnica nell’ordine nazionale delle cose.
Se questi sono gli elementi costitutivi della vittoria elettorale nella “democrazia israeliana” è necessario analizzare anche come la principale forza di opposizione nel parlamento israeliano si contrappone al Likud. La campagna elettorale delle opposizioni non-arabe si è concentrata quasi esclusivamente sulla difesa delle istituzioni, della legalità e del rispetto delle regole: eterno feticcio dei regimi liberali. Se in altre parti del mondo la violenza che si cela dietro le istituzioni statali è più sfumata in Israele l’ossimoro è sotto gli occhi di tutti: nel discorso pubblico in Israele un’accusa di corruzione è considerato più grave di un’accusa di crimini di guerra, formulata alla corte internazionale contro l’ex generale, oggi politicante, Binyamin Gantz.
In questa contraddizione insopportabile si disvela l’essenza dello stato sionista fondato sul colonialismo genocida e l’apartheid razziale e/o confessionale. Questo processo di separazione tra crimini commessi contro la nazione ebraica e lo stato di eccezione permanente per i crimini di guerra commessi contro i palestinesi ci fa capire cosa significhi il leitmotiv “Israele è l’unica democrazia del Medioriente”. Rendendo di fatto il teatrino elettorale l’armadio scintillante dentro al quale nascondere i fantasmi del genocidio del popolo palestinese. La democrazia, in Palestina come altrove, non ha nulla a che fare con il finto idolo della cabina elettorale, sempre pronta a giustificare i peggiori crimini contro i popoli di questa terra, quanto piuttosto con la giustizia, la terra e la libertà dal dominio coloniale.
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