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Kurdistan: chi appoggia il governo italiano?

Peccato, però, che i combattenti di Kobane e quelli di Sur e Cizre siano proprio gli stessi: nel 2014 migliaia di giovani curdi delle città turche si riversarono a Kobane per combattere ed oggi, tornati nelle loro città, si trovano costretti a difendere famiglie e quartieri dalle brutalità del presidente Erdogan. Là coraggiosi partigiani e utili interlocutori sul terreno, per Europa e Usa, qui banditi che la Turchia può sopprimere con qualsiasi mezzo. Là protagonisti della “guerra al terrorismo”, qui “terroristi” a loro volta. L’ipocrisia di Europa e Stati Uniti non ha mai fine. Eppure, esiste un luogo dove i partiti curdi sono considerati senz’altro alleati, senza ambiguità e distinguo: è il Governo Regionale del Kurdistan nel nord dell’Iraq (Krg), il cui centro amministrativo e politico è Erbil.

Di prima mattina, a Erbil, ragazzi discretamente zarri rifiutano di considerare le sim card che stiamo comprando prodotti “iracheni”: “No Iraq, Kurdistan!”. Le loro esclamazioni non sono diverse dai giovani che ci hanno ospitato a Diyarbakir, che si rifiutavano di esprimersi in turco: “Fuck turkish, speak kurdish!”. La differenza è che, qui, i movimenti curdi di resistenza sono andati al potere. Un ministro del Krg non esita a dichiarare: “L’Iraq esiste soltanto sulle mappe. Non prendiamoci in giro. Come il finto esercito iracheno del partito al-Dawa [principale partito sciita basato nel sud, da anni al potere in Iraq, Ndr] non ha avuto interesse a difendere Mosul dall’Isil, perché è una città sunnita, così io non mi considero iracheno, sebbene purtroppo abbia ancora questa cittadinanza”. L’esercito di Baghdad e e i Peshmerga curdi continuano a scontarsi, seppur sporadicamente, nella contesa provincia petrolifera di Kirkuk, dove metà della popolazione è araba, metà curda.

Negli anni Sessanta e Settanta i curdi iracheni, guidati dal leggendario condottiero musulmano Molla Mustafa Barzani, ingaggiarono una terribile guerra contro l’Iraq, che condusse a migliaia di morti, profughi e deportati, ma il peggio doveva ancora venire: durante la guerra Iran-Iraq, negli anni Ottanta, e a margine dell’aggressione statunitense all’Iraq del 1991 (dopo la quale tanto i curdi quanto gli arabi sciiti insorsero contro Saddam), il governo di Baghdad compì un vero e proprio massacro contro la popolazione curda a nord, usando anche armi chimiche. Da tempo il partito Baath al potere aveva tentato di “arabizzare” le province curde, espellendo forzatamente migliaia di persone e insediando nel nord centinaia di migliaia di arabi; una politica non molto diversa da quella che lo stesso partito portava avanti, negli stessi decenni, in Siria, sotto la presidenza di Afez al-Assad.

Nel 1991, dopo i bombardamenti contro l’Iraq, gli Stati Uniti imposero una “no-fly zone” sulle regioni curde, che furono così liberate militarmente dal potere di Saddam Hussein. I due principali partiti curdi, il Pdk (partito democratico del Kurdistan) ereditato da uno dei figli di Mustafa Barzani, Massud, e l’Upk (unione patriottica del Kurdistan) sotto la guida del suo antagonista Jalal Talabani, si affrontarono alle elezioni del 1992 e, decretando i risultati un pareggio al 48%, si scontrarono per le montagne a colpi di kalashnikov. I Peshmerga (“coloro che guardano la morte negli occhi”, in curdo) da armata secessionista diventarono milizie di partito in conflitto tra loro. Nel 1998 Bill Clinton propiziò la stretta di mano di Massud Barzani e Talabani a Washington, e la spartizione del Kurdistan iracheno in zona gialla (Erbil e Duhok, sotto il controllo del Pdk) e zona verde (Suleimaniya, sotto il controllo dell’Upk).

Dopo l’invasione del 2003, durante la quale gli Usa delegarono all’Upk l’espulsione dei salafiti curdi di Ansar al-Islam verso l’Iran (da cui, ciononostante, sarebbero tornati), la costituzione irachena pilotata dagli Usa, nel 2005, sancì l’indipendenza delle tre province a maggioranza curda (lasciando contese molte altre aree a lingua “mista” nella vicina provincia di Niniveh). Da allora i leader dei due partiti sono diventati tra gli uomini più ricchi al mondo, gestendo in modo clanico e clientelare i pozzi petroliferi del Kurdistan, tra i più grandi del pianeta. Nelle compagnie petrolifere o del gas da loro fondate un gran numero di funzionari Usa occupano oggi posti di prestigio, assicurandosi rendite miliardarie. Non stupirà che anche l’Italia sia interessata ad appoggiare, se non i guerriglieri del Pkk che vivono a base di riso e kebab, e tengono testa all’alleato turco, questa oligarchia curdo-irachena che ha trasformato la guerra per la liberazione in un’occasione per il proprio arricchimento personale.

“Da una ragione, il Kurdistan iracheno, la cui popolazione non raggiunge i cinque milioni, si esportano 650.000 barili di petrolio al giorno. Un quinto di questa esportazione è nelle mani dello stato, eppure da mesi il governo dice di non avere i soldi per pagare dipendenti pubblici e insegnanti. Com’è possibile?” si chiede Rabun Maroof, portavoce dei parlamentari di Goran, partito d’opposizione attestato sul 25%. “Da quest’autunno continuano le proteste di ingeneri, medici, poliziotti e insegnanti senza stipendio a Erbil, Rania, Suleimaniya, Kirkuk” racconta il giornalista televisivo e attivista politico Ali Mahmoud, arrestato qualche settimana fa e liberato dopo una campagna pubblica che ha mobilitato anche il Kurdistan turco e iraniano. “Il problema è che nel Krg non esistono sindacati indipendenti, tutti i sindacati sono legati ai due partiti al potere. Formalmente c’è il diritto di manifestare, ma nella realtà i concentramenti vengono attaccati dalla polizia, e i lavoratori che parlano apertamente contro il presidente vengono immediatamente arrestati”.

Dopo il crollo del prezzo del petrolio e il dissesto finanziario dovuto ad una politica forsennata di “grandi opere” da parte del governo, in pochi anni il Krg è diventato un paese dove la gente non sa dove trovare i soldi per la cena, nonostante i prezzi bassi e l’enorme ricchezza naturale del territorio. Il governo Renzi, ciononostante, ha deciso di rafforzare l’intesa con Barzani e aumentare da 200 a 800 i soldati italiani di stanza a Erbil. Intende inoltre rafforzare la collaborazione con la costruzione di una diga a Kirkuk (lucrosa “grande opera” in terra straniera affidata ad un’impresa emiliana) a “protezione” della quale verrebbero stanziati altri 800 soldati. Avere militari sul terreno in un paese ricco ma travagliato come l’Iraq fa sempre comodo, e mantenere amicizie con autoritari petrolieri anche, poco importa se a spese di una popolazione oppressa.

Il mandato presidenziale di Barzani è scaduto nel 2013, anno in cui una risicata maggioranza parlamentare gli ha garantito due anni di estensione, «sebbene ciò fosse illegale, perché la scelta del presidente è demandata ai cittadini secondo la costituzione”, spiega Maroof. Il 20 agosto 2015 questa estensione è scaduta, e il nuovo parlamento non ne ha votata un’altra (peraltro esclusa dal secondo mandato). Allora? “Nulla, Barzani è sempre lì. Non è più legalmente, ma per lui e per il mondo è sempre presidente”. Il suo potere, non supportato né dal voto popolare né dal parlamento, si basa eslusivamente sulla forza bruta delle milizie Peshmerga a lui fedeli e sull’appoggio incondizionato che Usa, Inghilterra e Italia forniscono a una personalità che altro non è, nei fatti, che un dittatore militare.

Intanto le Ypg continuano a cercare una strada percorribile per la soluzione della guerra civile in Siria, conquistando sempre maggior territorio allo stato islamico, ma le Nazioni Unite non le invitano al tavolo dei negoziati, presieduto dal diplomatico italiano Staffan de Mistura (le cui «brillanti» capacità – per fortuna, peraltro – sono già state evidenti con la vicenda marò in India). A porre il veto è l’alleato turco, per cui le Ypg hanno la colpa di essere alleate del Pkk; dal quale, a differenza del Pdk, Unione Europea e Stati Uniti non hanno da trarre alcun interesse economico, così che può restare nella black list delle più pericolose organizzazioni terroristiche mondiali. La diversità all’interno del Kurdistan è tra chi lotta per la libertà in una società giusta e chi ha venduto la libertà al denaro e al potere; e sono questi ultimi i curdi che piacciono al governo Renzi. Per questo, e soltanto per questo, non sentirete mai parlare in Italia di queste cose, e molte vittorie di Pkk e Ypg contro l’Isis saranno attribuite a non meglio precisati «Peshmerga». Una fonte istituzionale curda che chiede di restare anonima confida: “Per tanti anni ci siamo chiesti perché tutti i giornalisti parlassero bene del Pdk; poi abbiamo scoperto che li pagavano. A Barzani i soldi non mancano, e ad ogni giornalista piace tornarsene a casa con qualche migliaio di dollari in più”.

Dai nostri corrispondenti a Suleimaniya, Iraq

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