La fine del paesaggio (durante la battaglia)
All’inizio di marzo dello scorso anno, appena pochi giorni dopo l’invasione russa dell’Ucraina – mentre gran parte degli analisti di geopolitica mondiale si mostrava stupefatto dal tumultuoso precipitare degli eventi con il ritorno della guerra aperta nell’Europa dell’Est a più di 25 anni dalla fine di quella che mandò in pezzi la Jugoslavia – dalle lontane montagne del sud-est messicano, arrivò un pronunciamento netto.
di Raúl Zibechi, da Comune-info
La guerra va fermata subito, dicevano gli zapatisti. Se va avanti e si intensifica, com’è facile prevedere, potrebbe poi non esserci più nessuno a raccontare il paesaggio dopo la battaglia. Oltre un anno e mezzo dopo, non solo della pace – che sarebbe un processo e non un evento – ma perfino di un “cessate il fuoco” non si parla ormai più. Le notizie scivolano sempre più in basso. Tutto sembra procedere per inerzia verso il quadro più nefasto ipotizzabile, in attesa che, un bel giorno, venga ripristinato l’ordine del vincitore della competizione. Il problema è che – non solo “dopo”, alla fine della battaglia, come avvertivano gli zapatisti, ma già oggi, mentre la guerra è in pieno corso – il paesaggio è solo morte e desolazione. Quella contesa è già adesso una terra infestata di mine e ordigni inesplosi, che resterà contaminata per decenni. Una terra martoriata dalle bombe, spopolata e avvelenata come la popolazione, dell’una e dell’altra parte, che potrebbe abitarla e che la guerra l’ha subita e non l’ha scelta, checché ne dicano le varie propagande belliche. Sono la terra e le persone, in Ucraina e in Russia, a perdere in quella guerra, non le bandiere degli Stati. Questo – scrive Raúl Zibechi – è ciò che la rende uguale a tutte le altre guerre contro i popoli, quelle combattute con i soldati in Africa, in Siria e altrove e quelle di espropriazione, che uccidono in altri modi ma in nome degli stessi interessi: impadronirsi dei territori e accumulare denaro a qualsiasi costo.
Quando la guerra è cominciata, un opportuno e tempestivo comunicato dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) che analizzava i primi giorni del conflitto si concludeva così: “La guerra deve essere fermata adesso. Se va avanti e, com’è facile prevedere, si intensifica, allora forse non ci sarà nessuno a raccontare il paesaggio dopo la battaglia“.
Un anno e mezzo dopo, il giornalista Rafael Poch de Feliu, che è stato corrispondente per più di 20 anni a Mosca, Pechino, Berlino e Parigi, e che è un profondo conoscitore di quei mondi, concorda pienamente con la valutazione zapatista. Poch cita in modo esteso il giornalista statunitense Matthew Hoh che ha pubblicato un articolo su counterpunch.org il 30 giugno, intitolato “Destroy Eastern Ukraine to Save It“:
“Chiunque “vinca” nell’Ucraina orientale vincerà una terra spopolata e disseminata di infrastrutture distrutte. Questa terra resterà contaminata per generazioni dalle tossine militari della guerra e infestata di mine terrestri e ordigni inesplosi. È molto probabile che le madri ucraine soffrano allo stesso modo delle madri irachene, afghane e del sud-est asiatico, dando alla luce bambini morti, deformi e ammalati per generazioni a causa dei lasciti tossici della guerra moderna. I bambini e le loro famiglie, tra decenni, saranno puniti per questa follia in Ucraina, proprio come i bambini e le loro famiglie continuano ad essere puniti in tutti i paesi dopo il conflitto armato“.
L’articolo di Poch si intitola “L’Ucraina sta perdendo la guerra, ma la Russia non la sta vincendo”, e non si schiera con nessuna delle due parti, sebbene affermi che il 70% della responsabilità della guerra ricada sugli Stati Uniti e i suoi alleati.
Comincia parlando del fallimento della controffensiva ucraina, dovuto in gran parte a “diserzioni, reclutamento forzato e resa delle truppe ucraine al nemico”, notizie che la stampa europea occulta rigorosamente. I giovani rifiutano semplicemente di entrare nelle forze armate, dal momento che solo uno su cinque di loro accetta di essere reclutato.
Poch continua spiegando che c’è una vera carneficina sul fronte di battaglia. “C’è un quadro orribile di giovani uomini morti e mutilati.” Alcuni analisti arrivano a ritenere che l’aspettativa di vita di un giovane mandato al fronte sia di sole quattro ore!
Dalla parte russa, le cose non vanno meglio. Il paese ha giustificato l’invasione dell’Ucraina per difendere la popolazione russa del Donbass, ma le cose gli si stanno rivoltando contro: “La popolazione del Donbass – e parte delle regioni russe limitrofe di Belgorod e altre – stanno ora subendo bombardamenti e calamità molto peggiori rispetto quelle esistenti prima dell’invasione”. Peggio ancora, le regioni a maggioranza ucraina saranno instabili a lungo termine e sempre più anti-russe, un sentimento che secondo Poch durerà per generazioni.
La verità è che la pace è sempre più lontana, le due parti si aggrappano alle loro posizioni senza la minima capacità di prevedere dove va la guerra, che, come stimava l’EZLN, tende a sfociare in un conflitto tra potenze nucleari.
Molte delle persone di sinistra che abbiamo ascoltato in questi mesi concordano con l’analisi geopolitica secondo cui siamo di fronte a una guerra destinata a cambiare i rapporti di forza tra Nord e Sud, tra G-7 e BRICS, e in particolare tra Cina e Russia e Stati Uniti. Alcuni stanno già speculando su quanto durerà il dollaro come valuta di riserva e sulla prevedibile erosione del potere della superpotenza. Credono che essere antimperialisti si riduca a essere anti-yankee. Come se quello fosse l’unico imperialismo nel pianeta.
Il grosso problema di questa posizione politica è che mette da parte le persone, i popoli che sono vittime di una guerra che non hanno scelto. Ed è proprio questo punto che collega la guerra in Ucraina (e quelle nello Yemen, in Siria e in tutto il pianeta) con le guerre di espropriazione che subiscono i popoli dell’America Latina. Per questo dobbiamo avere ben chiaro che esiste una sola guerra: quella del capitale contro i popoli. Non è rilevante che quel capitale abbia attualmente sede in Europa, negli Stati Uniti, in Cina o in Russia. È il capitale, punto.
Saremo capaci di sentire la guerra in Ucraina come un’aggressione contro di noi? La domanda vale anche per chi ancora non sente le aggressioni in Chiapas o a Oaxaca, a Jujuy o in Perù, come parte di un attacco generalizzato dall’alto contro los y las de abajo, quelli e quelle che stanno in basso. Come disse una volta Bertolt Brecht, se non reagiamo adesso, quando arriverà il nostro turno sarà troppo tardi.
Versione originale in spagnolo su Desinformémonos
Traduzione per Comune-info. marco calabria
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