La fine di Assad e l’inizio del califfato all’ombra di Ankara scompongono il mosaico siriano
La repentina caduta del regime alauita degli Assad riporta alla luce le fratture della Siria postcoloniale, frutto malsano dell’accordo Sykes Picot del 1916 fra Francia e Gran Bretagna, che ha diviso in modo arbitrario i territori che appartenevano all’impero ottomano.
Le milizie di Hayat Tahrir al-Sham e dell’Esercito nazionale Siriano, armate e sostenute da Ankara, incarnano la proiezione degli interessi turchi in Siria e costringono i vincitori del momento ad onorare il debito con Erdogan, che vuole eliminare la presenza curda nel nord della Siria. Ahmad al-Sharaa, come adesso si fa chiamare Al Jolani, dovrà ricostituire un esercito accordandosi con gli ex militari assadisti, dovrà fare delle concessioni sul piano della governance di stampo salafita come si aspettano i suoi seguaci, proverà a rassicurare l’occidente sulla sua conversione da Al Nusra alla democrazia rappresentativa, anche se nella grande moschea degli Ommayadi che contiene i resti del condottiero Saladino ha parlato di vittoria per la nazione islamica.
Impresa ardua tenere a freno gli appetiti delle potenze medie e grandi che aspirano al controllo di questo territorio ricco di storia e strategico per le connessioni fra Asia ed Europa, mentre l’arroganza della potenza militare sionista si dispiega acquisendo in maniera fraudolenta altro territorio nelle alture del Golan già siriane.
Ne parliamo con Alberto Negri
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