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L’attentato di Charleston e il razzismo sistemico nella società USA

E’ di 9 vittime il bilancio finale dell’attentato che questo mercoledì sera (le 3 di notte in Italia) ha colpito l’Emanuel African Methodist Episcopal Church della città americana di Charleston, nel South Carolina. A sparare un 21enne bianco, Dylann Storm Roof,  – immortalato in diverse foto mentre esibisce simboli segregazionisti come la bandiera del Sudafrica sotto haparteid e della Rhodesia filo-britannica – che ha scelto l’obiettivo del suo attacco terroristico individuandolo nella più antica chiesa metodista afroamericana costruita nel sud degli Stati Uniti. Tra le persone colpite, tutti membri della comunità black, anche il pastore della chiesa nonché senatore del Partito Democratico, Clementa Pinckney, che già negli scorsi mesi si era esposto criticando l’operato delle forze dell’ordine locali in seguito al brutale omicidio del 50enne afroamericano disarmato Walter Scott.

Una modalità evidentemente non casuale, che fa sospettare ad un piano ben congegnato volto ad alimentare una spirale di odio razziale che – al netto degli allarmismi mediatici – rimane univoca e immutabile: a sparare sono i bianchi, ad essere uccisi i neri. Questo dato di fatto merita ancora una volta di essere evidenziato per allontanare nell’immediato interpretazioni falsamente oggettive che vorrebbero individuare nell’escalation di proteste e rivolte degli ultimi mesi all’interno dei ghetti afroamericani la presunta “miccia” che avrebbe innescato l’attentato di ieri. Non è così, e lo sappiamo bene.

Sono infatti oltre 500 i morti ammazzati per mano delle forze dell’ordine nel solo 2015, di questi la quasi totalità sono neri e latinos, per lo più proletari o sottoproletari e senzatetto. Nella sola città di Charleston, oltre al già citato episodio relativo alla morte di Walter Scott, sono stati oltre 50 gli abusi di polizia a partire dal 2000 – l’ultimo riguarda l’omicidio di Sheldon Williams, un afroamericano ucciso mentre dormiva in un motel -, 209 nello stato del South Carolina. Non solo, è anche il secondo attentato a sfondo razziale compiuto negli USA quest’anno, dopo la bomba fatta esplodere davanti alla sede dell’associazione per i diritti civili NAACP nella cittadina di Colorado Springs, lo scorso 6 gennaio. All’episodio si legano diverse manifestazioni di intolleranza nei confronti di moschee e luoghi di culto islamici, nonché le minacce del Ku Klux Klan contro gli attivisti del movimento Black Lives Matter e le provocazioni delle più diverse organizzazioni neonaziste.

La matrice dell’attentato è quindi evidentemente razzista, come dimostra anche la data scelta da Storm Roof per il suo attacco: il 17 giugno 1822, infatti, è la giornata in cui ricorre la mancata rivolta degli schiavi organizzata dal falegname Denmark Vesey, ex schiavo e tra i fondatori dell’Emanuel African Methodist Episcopal Church. Vesey pianificò una protesta che avrebbe coinvolto migliaia di schiavi di Charleston e dintorni con l’intenzione di uccidere i proprietari terrieri per poi salpare alla volta Haiti – dove nel 1804  una nave di ammutinati aveva gettato a mare gli schiavisti. La rivolta venne soffocata sul nascere e Vesey fu riconosciuto colpevole durante un processo segreto e condannato a morte insieme ad altri 5 compagni il 2 luglio 1822. La repressione che ne seguì coinvolse centinaia di african-american ed ebbe il suo epilogo con l’incendio della chiesa, che venne poi ricostruita nel 1891.

Oggi Denmark Vesey è considerato eroe nazionale e la sua statua campeggia nel centro di Charleston, ma l’opinone pubblica americana sembra dimenticare come quello del razzismo sia un problema endemico all’interno del suo tessuto sociale, una questione irrisolta che si riproduce in primo luogo nell’esercizio delle dinamiche di potere. Avere “punito” uno dei pochissimi esponenti politici che avevano preso posizione nei confronti degli abusi di polizia è un endorsement indiretto proprio verso la condotta razzista e sanguinaria delle forze dell’ordine, oltre che una attacco durissimo nei confronti della compagine istituzionale che vedeva nella figura di Obama un potenziale argine a questo tipo di avvenimenti.

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