Le elezioni USA: non solo uno scontro tra un “rimbambito” e un “delinquente”
Dopo il Super Tuesday del 5 marzo, la partita delle primarie presidenziali negli Stati Uniti si è chiusa con lo scontato risultato della vittoria di Biden da un lato e di Trump dall’altro, che quest’estate verranno incoronati quali candidati per la corsa del novembre 2024 nelle Conventions dei rispettivi partiti.
di Elisabetta Grande, da Volere la Luna
I maligni la dipingono già come la triste competizione fra un presidente in carica, cui un procuratore speciale ha sì risparmiato un’accusa penale, presentandolo però agli occhi dell’elettorato come assai poco lucido mentalmente, e un ex presidente sotto accusa per più di un fatto di reato. Una gara, per dirla volgarmente, fra un rimbambito e un potenziale delinquente: non un bel vedere, insomma! Stando così le cose proviamo a capire meglio se e quali ostacoli incontrano oggi i due futuri candidati alla presidenza di un paese la cui politica estera ha un fortissimo impatto sulle sorti del mondo, ragion per cui le sue elezioni riguardano direttamente anche noi.
Trump, com’è noto, si presenta al momento in vantaggio nei sondaggi, raccogliendo consensi non solo fra i suoi fedelissimi, ma anche fra molti repubblicani che nel 2020 erano stati scettici nei suoi confronti e non lo avevano votato. Inoltre, e sorprendentemente agli occhi di molti, l’ex presidente miete fiducia presso strati sempre più larghi delle minoranze, che oggi scivolano a destra. Si tratta non solamente del voto nero, che già a partire dal secondo Obama – per quanto in percentuale certamente ridotta – si è spostato verso i repubblicani e, nel 2016 e nel 2020, in particolare verso Trump (mi si permetta di rinviare al mio, Joe Biden: tutto cambia affinché tutto resti (dis)uguale? In MicroMega, 1, 2021, p. 171 ss.). Sono soprattutto gli ispanici, i così detti latinos, che alcuni sondaggi danno a favore di Trump addirittura per una percentuale maggiore del 40, ad apparire oggi come veri e propri swing voters, ossia quale gruppo etnico la cui preferenza maggioritaria non è certa e che per questo può costituire l’ago nella bilancia elettorale. Dalla parte di Trump c’è poi gran parte della classe operaia bianca e più in generale gli elettori, soprattutto bianchi, che non hanno una laurea. Un sondaggio della NBC di inizio anno riporta come fra i bianchi non laureati i punti di distacco a vantaggio di Trump, già alti nel 2023, siano notevolmente cresciuti nel gennaio 2024 (https://pos.org/wp-content/uploads/2024/02/Bill-NBC-Executive-Summary-Presentation-d1a.pdf).
Si tratta degli strati della popolazione economicamente più in difficoltà, messi in ginocchio dal capitalismo della globalizzazione, che ha prodotto la delocalizzazione delle industrie manifatturiere nei paesi del sud del mondo. I colletti blu sono soprattutto uomini e donne bianchi, lavoratori nelle fabbriche in declino – per quanto l’UAW, il sindacato dell’automotive, abbia recentemente ottenuto vittorie strepitose – nell’edilizia o nei trasporti, che tradizionalmente hanno formato la base elettorale del partito democratico, ma che da qualche tempo lo hanno abbandonato. E se la working class bianca rappresenta il 35% del voto nazionale, negli Swing States della Rust Belt (la regione dei Grandi Laghi, un tempo cuore dell’industria pesante del Paese) il suo peso è determinate o quasi. Quei lavoratori sono, infatti, il 45% degli elettori in Pennsylvania, il 52 % in Michigan e addirittura il 56% in Wisconsin (https://www.nytimes.com/2024/02/21/opinion/biden-trump-working-class.html?): tutti Stati che Biden ha vinto al margine nel 2020 e che, se vuole vincere, ha bisogno di mantenere anche in questa tornata.
Il problema del partito democratico pare, dunque, consistere nell’aver perso la propria identità storica, quella che lo rendeva il partito della classe operaia, dei più deboli, dei little guys, e di essersi trasformato in buona misura nel partito dell’élite istruita e perfino dei più ricchi, considerata la sempre maggiore fetta di popolazione abbiente – quella del quinto percentile più ricco – che oggi lo sostiene. «I democratici hanno perso terreno perché la loro politica economica non è stata una politica per i lavoratori. Paga di meno essere il partito di Wall Street e delle corporation multinazionali (il neoliberismo, da Carter a Clinton a Obama, con Clinton che è stato il più efferato di tutti) piuttosto che difendere l’aborto o i programmi di diversità eguaglianza e inclusione» sostiene in proposito Robert Borosage, uno dei fondatori della Campagna per il futuro dell’America.
La politica economica del partito democratico, per decenni troppo simile a quella repubblicana – quando non addirittura peggiore – ha contribuito a una situazione in cui il 50% della popolazione meno abbiente nel paese più ricco del mondo era nel 2021 più povero del 50% della popolazione italiana, pur essendo la ricchezza media (quella pro capite) statunitense due volte e mezzo quella italiana (Global Wealth Report). Si tratta di una politica che negli ultimi trent’anni ha consentito all’1% più ricco di portare via alla metà più povera degli americani quel poco che aveva: i primi si sono arricchiti di 21 trilioni con una crescita della loro fetta di ricchezza nazionale dal 27 al 34%, mentre i secondi l’hanno vista diminuire dal 4 al 2%, perdendo 900 milioni (https://www.peoplespolicyproject.org/2019/06/14/top-1-up-21-trillion-bottom-50-down-900-billion/). Nel giugno del 2023 le insolvenze dei mutui per le vetture hanno raggiunto il picco più alto dalla grande recessione; l’uso delle carte di credito è aumentato notevolmente, così come la morosità nei pagamenti, fra le più alte dell’ultimo decennio; la povertà infantile, dopo un momento di drastica riduzione dovuta a un sostegno pubblico straordinario poi eliminato, fra il settembre 2021 e il settembre 2022 è raddoppiata; nel 2022 il tasso di insicurezza alimentare ha raggiunto il suo livello più alto dal 2015; il numero degli homeless nel 2023 è cresciuto del 12%… mentre i miliardari passavano da 724 nel 2021 a 735 nel 2023 (con un Elon Musk che in tre anni ha addirittura decuplicato la sua ricchezza miliardaria).
Non è dunque una sorpresa che le dichiarazioni di Joe Biden di un’economia in ottime condizioni lasci il tempo che trovi presso i tantissimi che non se ne sono accorti e che necessitano di una sicurezza finanziaria che non hanno. «Non si tratta di essere ricchi, ma di poter soddisfare le esigenze vitali senza preoccupazioni», dice chi – intervistato da un gruppo di ricerca che documenta la gravità della situazione negli Stati Uniti – è fra il 62% della popolazione americana che vive “pay check to paycheck”, ossia arrivando a stento a fine mese senza mai risparmiare nulla, col rischio di trovarsi per strada in caso di perdita del lavoro o di malattia improvvisa (https://www.cnbc.com/2023/10/31/62percent-of-americans-still-live-paycheck-to-paycheck-amid-inflation.html). L’aver perso il contatto con la propria base storica è probabilmente il problema più serio per il partito democratico e quindi per Biden che, per quanto oggi prometta una tassazione sulle ricchezze più ingenti, appare poco credibile a chi lotta per non affondare.
Così, mentre Donald Trump pare trarre – un peraltro ingiustificato – vantaggio dallo scollamento fra il partito democratico e i little guys, conquistandoli a sé, i tanti processi che nell’anno corrente lo dovevano vedere sul banco degli imputati si sono per ora ridotti a uno: quello che lo vede accusato di aver comprato il silenzio della porno star Stormy Daniels, al fine di evitare uno scandalo sessuale durante la campagna elettorale, il cui inizio è calendarizzato per il 15 aprile. Si tratta di un processo che tutto sommato non sembra potergli alienare le simpatie del suo elettorato, ma che potrebbe condurlo nelle patrie galere.
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