L’Egitto in rivolta e la «nuova sicurezza»
Fin dallo scorso 25 gennaio – data dell’inizio delle rivolte che hanno portato alla caduta dell’ex rais Hosni Mubarak – in tutto il paese è in corso una campagna di disobbedienza civile. La campagna, che vorrebbe realizzare esperienze simili a quella di Port Said, ha visto vasti scioperi dei lavoratori in città industriali come Tanta, Mansoura e Mahalla.
Proprio a Mahalla la notte centinaia sono i giovani che, ormai da una settimana, si scontrano con la polizia. In questa città, con un recente passato di forti scioperi, la presa di coscienza popolare aumenta sempre più.
Anche se oggettivamente la lotta dei lavoratori e la rabbia dei giovani per il malgoverno non sono ancora riuscite a portare ad un conflitto globale e generalizzato contro tutte le espressioni del governo – sullo stile Port Said – rivolte e scioperi stanno però portando ad una nuova presa di coscienza popolare. Sempre più egiziani si rendono contro che senza un cambiamento del sistema, il regime è e rimarrà lo stesso, anche se con facce e nomi nuovi.
Anche il deserto del Sinai è stato scosso dalle proteste. Nella penisola, in cui forti e potenti sono le relazioni tribali, nella zona di Arish nell’ultima settimana in molti sono scesi per le strade per protestare contro l’atteggiamento del governo centrale. Il territorio, strategico in quanto da decenni campo di battaglia e conquista delle autorità israeliane, è ormai da decenni al centro delle “trattative di pace” regionali con lo stato sionista, che lo controlla tuttora politicamente. Territorio-cuscinetto praticamente militarizzato in cui, appunto per questa particolare importanza strategica, non è possibile alcun tipo di sviluppo ed in cui il potere dei clan tribali si fa sempre più forte.
L’ennesimo attacco da parte di una banda armata ad un check-point nel deserto, avvenuto nella giornata di ieri, dimostra – sia pur con le forti contraddizioni presenti in tal territorio – come sia lontana la pacificazione, non solo nelle città, ma anche nelle zone periferiche dell’Egitto.
Ed è proprio sul fattore “sicurezza” che nelle ultime giornate si sono avute le maggiori discussioni.
Immediatamente dopo il verdetto sulla strage di Port Said è iniziato uno sciopero delle forze di polizia in varie aree del paese. Centinaia i poliziotti in sciopero “contro il governo Morsi” che chiedono maggiori poteri e più armi per “proteggersi” dagli attacchi dei manifestanti. Sempre di più sono le caserme attaccate ed incendiate dai manifestanti in varie zone del paese.
A seguito delle richieste delle forze di polizia, le autorità egiziane la settimana scorsa hanno proposto un nuovo decreto grazie al quale verrebbe permesso, a non meglio specificati “gruppi di cittadini”, di arrestare i “vandali”.
In merito a questa misura, se i membri dei Fratelli Musulmani e di Al-Gamaa Al-Islamiya si mostrano compiaciuti della facoltà accordata ai “poteri politici di aver il diritto di formare proprie forze di polizia, per combattere i crimini nelle strade”, di tutt’altro parere sono coloro che niente hanno a che fare con il regime e con l’Islam al potere. Insomma, dimostra soddisfazione solo chi il potere ce l’ha e adesso trova nuovi margini per esercitarlo, non certo chi, continuando a lottare, affronta un potere poliziesco capace di una violenza maggiore perfino di quella degli anni bui di Hosni Mubarak.
Tra chi si oppone alla proposta, accanto a coloro che parlano di una linea “legalista” affermando che la mossa sarebbe anticostituzionale, vi è anche chi rintraccia nel provvedimento un ancora maggiore rafforzamento del regime e dei propri poteri.
Che siano vere oppure no le voci secondo le quali lo sciopero dei poliziotti sia stato funzionale a questo passaggio, indubbiamente le discusse “milizie” delle forze al potere porterebbero a nient’altro che un nuovo totalitarismo, anche per le strade. Ad un ancor maggior controllo delle forze di polizia, già subalterne al regime. O, ancor peggio secondo alcuni punti di vista, alla possibile legittimazione di contractor o di compagnie di sicurezza private che nello stesso Medio Oriente e nel vicino Golfo Persico continuano ad uccidere per conto delle guerre portate avanti dall’occidente.
Non va scordato che i sostenitori delle milizie sono gli stessi che in più di un’occasione avevano affermato che era legittimo, per la “protezione dello stato”, massacrare gli attivisti laici.
Ma, come dimostrato dalla fantastica esperienza di Port Said – sebbene ridimensionata e mutata dopo le recenti sentenze e gli ultimi scontri – nessuna polizia di regime o di partito potrà mai portare alcun tipo di sicurezza per le strade. Solo l’organizzazione popolare e l’autorganizzazione dei quartieri sono espressioni dell’unica sicurezza possibile: quella radicata in un processo rivoluzionario che continua ad essere sostenuto con forza mostrandosi irriducibile all’arroganza del nuovo regime e dei partiti politici.
La corrispondente di Infoaut dall’area mediorientale
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