Medio Oriente, scompiglio tra gli alleati
Un’utile e sintetica panoramica di Immanuel Wallerstein sull’attuale politica estera statunitense in Medio oriente. La pubblichiamo anche se per una valutazione più approfondita non bisognerebbe dimenticare il nodo cruciale di come l’azione di Washington è costretta ad articolarsi alle dinamiche della primavera araba. Che è, dentro la global crisis, il vero nodo della situazione più che un generico trend declinista degli States su cui molto ci sarebbe da approfondire e discutere.
Perché mai gli Usa abbiano stretto un’alleanza così salda con Israele è oggetto di acceso dibattito. Ma è chiaro che da anni il rapporto tra i due paesi si è andato facendo sempre più stretto e sempre più alle condizioni di Israele, che ha potuto contare sull’aiuto finanziario e militare e sul deciso veto degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu.
Quel che si è verificato adesso è che sia i politici israeliani, sia la loro base statunitense sono andati muovendosi progressivamente verso destra. Israele si aggrappa saldamente a due cose: l’eterno procrastinare seri negoziati con la Palestina e la speranza che qualcuno bombardi l’Iran. Obama si è mosso in direzione opposta, almeno per quel tanto che gli è permesso dalla politica interna statunitense. Le tensioni sono altissime e Netanyahu prega, se prega, per la vittoria presidenziale repubblicana nel 2012. Ma la crisi potrebbe scoppiare prima, quando l’Assemblea generale delle Nazioni Unite voterà per riconoscere la Palestina come stato membro. Gli Stati Uniti si troveranno nella condizione perdente di votare contro.
L’Arabia Saudita ha intrattenuto un amichevole rapporto con gli Usa fin dal 1943, anno dell’incontro tra il presidente Franklin Roosevelt e re Abdul Aziz. Insieme i due paesi hanno tenuto sotto controllo la politica mondiale del petrolio e collaborato sulle questioni militari. Gli Stati Uniti poi potevano contare sui sauditi per tenere a bada gli altri regimi arabi. Ma oggi il regime saudita si sente fortemente minacciato dalla seconda rivolta araba ed è sconcertato dalla decisione degli Usa di sancire lo spodestamento di Mubarak da parte dei suoi militari oltre che dalle, sia pur flebili, critiche statunitensi dell’intervento saudita in Bahrein. Le priorità dei due paesi oggi sono ben diverse.
Nell’era della Guerra Fredda, quando gli Stati Uniti ritenevano l’India troppo vicina all’Unione Sovietica, il Pakistan ottenne il pieno appoggio degli Usa (e della Cina), indipendentemente dal suo regime. Si allearono per aiutare i Mujahiddin in Afghanistan e forzare il ritiro delle truppe sovietiche. Probabilmente si allearono anche per soffocare la crescita di al-Qaeda. Oggi sono cambiate due cose: finita la Guerra Fredda, il rapporto degli Stati uniti con l’India è divenuto molto più amichevole con grande sconcerto del Pakistan. D’altra parte cresce vieppiù il disaccordo tra Stati Uniti e Pakistan su come gestire l’incremento di potere di al-Qaeda e Talebani in Pakistan e in Afghanistan.
Uno dei principali obiettivi della politica estera statunitense dal crollo dell’Unione Sovietica in poi è stato quello di impedire all’Europa occidentale di sviluppare politiche autonome, cosa che oggi fanno tutti e tre i paesi più forti: Regno Unito, Francia e Germania. Un processo che né la linea dura di George W. Bush, né quella morbida di Barack Obama sembrano aver rallentato. Il fatto che Francia e Gran Bretagna chiedano agli Usa una guida più attiva contro Gheddafi, mentre la Germania chiede il contrario è meno importante del fatto che tutti e tre i paesi dicono quello che dicono chiaro e forte.
Russia, Cina e Brasile giocano le loro carte con cautela in rapporto agli Stati Uniti. Tutti e tre sono contrari alle posizioni statunitensi pressoché su ogni questione all’ordine del giorno. Forse non arrivano fino in fondo (per esempio col veto al Consiglio di Sicurezza) perché gli Stati Uniti potrebbero ancora tirar fuori le unghie, ma di certo non cooperano. Il fiasco del recente viaggio di Obama in Brasile, dove pensava di poter essere accolto diversamente dal nuovo presidente, Dilma Rousseff, ma non lo è stato – indica la scarsa influenza politica degli Usa oggi.
Infine anche la politica interna statunitense è cambiata. La politica estera bipartisan fa ormai parte della memoria storica. Oggi, quando gli Usa vanno in guerra, come in Libia, i sondaggi dell’opinione pubblica mostrano un appoggio solo del 50% circa dell’opinione pubblica. E i politici di entrambi gli schieramenti attaccano Obama perché troppo falco o troppo colomba. Tutti si preparano a saltargli addosso se solo dovesse provare a tirarsi indietro. Cosa che potrebbe finire per indurlo a incrementare l’impegno americano in tutta la regione, esacerbando in tal modo la reazione negativa di tutti i suoi alleati di un tempo.
Madeleine Albright ha notoriamente definito gli Stati Uniti la «nazione indispensabile». Tuttora il gigante della scena mondiale. Ma un gigante impacciato che non sa dove sta andando, né come arrivarci. La misura del declino è nella disinvoltura con cui i suoi più stretti alleati di un tempo sono pronti a ignorarne i desiderata e a dirlo apertamente. La misura del declino è nell’incapacità di dichiarare pubblicamente quanto sta facendo e nell’insistenza con cui si asserisce che è tutto perfettamente sotto controllo. Di fatto gli Stati Uniti hanno dovuto sborsare una cifra da capogiro per ottenere il rilascio di un agente Cia dalle galere pakistane.
Il risultato di tutto ciò? Un ulteriore aumento dell’anarchia globale. E chi ne trarrà profitto? Questo, al momento, è tutto da vedere.
Traduzione di Maria Baiocchi per Il Manifesto
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