Note sull’Egitto in movimento
Il governo statunitense è alla ricerca di un modo per mantenere un ruolo centrale nei paesi arabi, nell’ottica di un riposizionamento strategico nell’area: le guerre in Afghanistan e Iraq, i due pantani della politica della “guerra al terrorismo”, simboleggiano la sconfitta di una impostazione politica basata sulla pressione militare, lo spauracchio jihadista, e sull’appoggio a cricche familistiche di potere.
In questo contesto Obama mira ancora a disinnescare la sollevazione popolare, che già diventa fonte d’ispirazione in Europa e persino in alcuni degli Stati più impoveriti degli USA.
In questo senso leggiamo la fine della telenovela BinLaden e la proposta di un “fondo per la primavera araba” da 35 miliardi di dollari lanciata al G8 di Deauville.
Aspettando un analisi economica più approfondita che spieghi come vengano recuperati questi fondi e quali effetti può produrre nel contesto di crisi finanziaria globale, questa proposta per forma e metodo appare come quanto di più esplicitamente neo-coloniale abbia prodotto la politica statunitense.
Appare chiaro che il prezzo del debito con l’America è la stabilità politica, la fine della rivoluzione in un sostanziale mantenimento delle garanzie di sicurezza dell’area mediorientale. Questo è stato compreso da molti bloggers arabi che hanno detto a chiare lettere che potrebbe essere compromesso in modo definitivo il processo rivoluzionario in Tunisia ed Egitto.
D’altra parte il governo militare egiziano “di transizione” vuole proporsi come interlocutore dell’Occidente, ma non può stuzzicare troppo la piazza, che nell’ultimo venerdì ha dimostrato di avere una vitalità rinnovata, frutto anche di nuovi rapporti di forza. Il 27 maggio in migliaia si sono trovati ancora una volta in piazza Tahrir subito dopo la preghiera del mezzogiorno sotto gli slogan “la rivoluzione non è finita!”, “vogliamo un consiglio civile, via il consiglio militare!”. Altre manifestazioni si sono tenute a Alessandria, Suez, Ismailiya e nel deserto del Sinai in fronte alla residenza di Sharm El-Sheikh dove ancora si trova Mubarak che i giovani egiziani vogliono invece vedere immediatamente processato.
La mobilitazione di Venerdì scorso ha provocato una delle prime lacerazioni all’interno del movimento egiziano a causa del boicottaggio della protesta da parte dei Fratelli Musulmani, il cui interesse prevalente sembra adesso farsi accettare dal regime militare e dagli interlocutori internazionali come fattore di stabilizzazione e di controllo delle piazze e di strappare più seggi possibili alle prossime elezioni. Tutto il contrario della voglia di rivoluzione, come si era largamente intuito sin dal 25 gennaio dalla tiepida reazione all’inizio della Rivoluzione.
Nonostante questo alla protesta convocata dai laici e dai partiti di sinistra hanno partecipato anche molti giovani musulmani in aperto dissenso con le alte sfere del movimento e in piena sintonia con le richieste della piazza.
E mentre i Fratelli Musulmani chiedevano di “tornare all’ordine”, sminuivano i risultati della mobilitazione: sul loro sito web si afferma infatti che “in Tahrir non ci saranno state più di 5000 persone”, affermazione smentita dai giovani della Rivoluzione che in piazza cantavano slogan come “Dove sono i Fratelli Musulmani? Questa è Tahrir, questa è la Rivoluzione!”.
Non è scontato che si parli in questo momento di una “Seconda Rivoluzione” dopo quella del 25 gennaio, che ha ottenuto l’unico risultato di cacciare il rais ma non di modificare la struttura di potere del paese. Il popolo egiziano vuole il cambiamento, il governo militare egiziano ha preso tempo su tutte le questioni politiche poste dal movimento, in primis sulla formazione di un governo civile, ma anche sul cambio delle dirigenze sindacali, delle forze armate e delle istituzioni, che si sono rese complici del vecchio regime.
Nel frattempo, com’era inevitabile, la Palestina diventa un nodo essenziale della politica estera ed interna in Egitto. Si surriscalda il confine palestinese in seguito alla riapertura del valico di Rafah, a pochi giorni dall’accordo Hamas-Fatah raggiunto con la mediazione egiziana e della proposta di Obama del confine del ’67 in Palestina.
Sia la riapertura del valico che la proposta di Obama hanno suscitato l’ira delle autorità israeliane che temono l’avanzare della rivoluzione in Egitto e quindi la perdita del più importante alleato strategico nell’area. La questione della solidarietà al popolo palestinese è sempre stata molto presente nelle piazze egiziane e da mesi si chiedeva un apertura del valico di Rafah stroncando la vergognosa politica estera filosionista del passato regime.
Tuttavia il valico di Rafah verrà aperto alle persone, ma non interferirà con il blocco delle merci imposto dal governo sionista. Verrà probabilmente innalzato il numero di persone che potrà passare il confine, ma forti limiti rimangono alla mobilità degli adulti fino a quarant’anni; di fatto non si può parlare di una riapertura capace di rompere il decennale assedio di Gaza, ma di una mossa politica dei militari verso l’obiettivo di garantirsi una parte nel governo del prossimo futuro, quali affidabili e buoni interlocutori degli Stati Uniti.
Ma le ultime mobilitazioni mostrano che il popolo egiziano non ha nessuna voglia di continuare a essere un umile servo degli Stati Uniti, ma vuole insistere verso la strada di un cambiamento e di un emancipazione reale.
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