Nuovi interrogativi sull’apparente suicidio di Mario Paciolla in Colombia
da: Caminantes – Centro studi e documentazione su Messico e America Latina
La Missione di Verifica delle Nazione Unite in Colombia si configura sempre più come il posto dove è maturato l’assassinio di Mario Paciolla. L’ultimo articolo di Claudia Duque, tra i pochi che stanno svolgendo indagini sulla morte di Mario, racconta retroscena che chiamano fortemente in causa l’apparato delle Nazioni Unite, elementi della politica colombiana istituzionale e non, e le immancabili Forze Armate. Tutto in uno scenario in continua evoluzione sul piano sociale, con la pandemia che imperversa, e lo stillicidio di esecuzioni e massacri giornalieri da parte degli attori in campo, sempre sulla testa e sui corpi di una popolazione ostaggio di poteri collusi con una criminalità dai mille volti.
In questo articolo pubblicato da El Espectador, Claudia Duque svela fatti e cita persone che gli inquirenti a Bogotá, New York e Roma non hanno reso pubblici (non sappiamo se perché le loro indagini sono ferme all’ipotesi del suicidio o per quale altro motivo). Resta il fatto che l’opinione pubblica, gli amici, coloro che conoscevano Mario e forse anche la sua famiglia, a un mese e mezzo dalla morte continuano a essere tenuti all’oscuro di come procedono le indagini e gli atti giudiziari.
Molti hanno posto domande ne abbiamo una semplice anche noi e la rivolgiamo a tutti: quali sono i risultati delle autopsie? E perché dopo quasi due mesi non sono stati resi pubblici?
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Nel novembre del 2019, mentre era in vacanza a Napoli, Mario Paciolla chiese di cancellare le sue poesie da vari siti web culturali francesi e italiani, eliminò fotografie personali e familiari dai suoi social network, impostò l’account Facebook in modalità privata, cambiò password e, anche se lasciò aperti gli account Twitter, eliminò i suoi tweet. Contemporaneamente, chiese a un amico di realizzare una copia di sicurezza dei file del suo computer, e al padre, Giuseppe, di separare la connessione internet fino a quel momento condivisa tra il suo appartamento e la casa di famiglia.
Tra il 19 e il 21 novembre, di nuovo in Colombia, Paciolla confidò a varie persone a lui vicine che lui e alcuni colleghi della Missione di Verifica delle Nazioni Unite assegnati all’ufficio di San Vicente del Caguán (Caquetá) avevano subito attacchi cibernetici dopo lo scandalo che due settimane prima aveva provocato la caduta dell’allora ministro della difesa, Guillermo Botero.
Il cooperante [Nota del traduttore: l’autrice dell’articolo usa il termine “volontario”. Tuttavia, il “volunteer” con cui era inquadrato nelle Nazioni Unite è meglio assimilabile a un cooperante/funzionario] dell’ONU aveva documentato, insieme ai colleghi della Missione, i dettagli del bombardamento del 29 agosto nella frazione Aguas Claras del municipio di San Vicente del Caguán, contro l’accampamento di Rogelio Bolívar Córdova, alias Gildardo el Cucho, in cui erano morti sette minorenni tra i 12 e i 17 anni. Grazie ad alcune inchieste si è poi saputo che altri ancora erano stati giustiziati da vicino.
Con il rigore che lo contraddistingueva, Mario Paciolla fu uno degli incaricati di verificare le circostanze del bombardamento, in particolare la morte degli adolescenti reclutati da el Cucho, comandante dei dissidenti dei fronti 7, 40 e 62 delle FARC [Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, organizzazione guerrigliera di ispirazione marxista-leninista e bolivariana attiva dal 1964], così come il successivo desplazamiento forzato delle loro famiglie e le minacce al personero [rappresentante della comunità incaricato della difesa dei diritti umani e della vigilanza sulla condotta di chi disimpegna funzioni pubbliche] di Puerto Rico, Herner Evelio Carreño, che in precedenza aveva informato le Forze Armate del reclutamento di minorenni nella zona.
Paciolla – trovato morto nel suo appartamento lo scorso 15 luglio, otto mesi dopo l’incidente – si sentiva in pericolo, tradito, incollerito con i superiori, e informò gli amici più stretti di aver richiesto il trasferimento in un’altra sede della Missione dopo essere venuto a sapere che, per decisione di Raúl Rosende, direttore dell’area di Verifica dell’organismo, stralci dei suoi rapporti erano giunti tra le mani del senatore del partito della U Roy Barreras, le cui denunce nella seconda mozione di sfiducia a Botero, il 5 novembre, avevano assestato un colpo decisivo alla cupola militare e forzato la rinuncia del ministro.
LA FUGA DI INFORMAZIONI
Durante il suo mandato al ministero della difesa, Botero fece lobbing perché il mandato della Missione, che è rinnovato ogni settembre, non fosse approvato per il 2019, il che generò un certo malcontento. Alcune fonti assicurano che più di una volta l’ex-ministro si rifiutò di ricevere la Missione, e che nella prima riunione ufficiale con il messicano Carlos Ruiz Massieau, massimo responsabile dell’organismo, lo ringraziò per il lavoro svolto e al termine della seduta sentenziò: «Ora continuiamo noi», espressione interpretabile come un congedo anticipato per decisione delle Forze Armate.
La decisione di far filtrare le informazioni sul bombardamento, di natura sensibile e confidenziale, fu presa nelle ultime settimane di ottobre da alcuni funzionari, che, coordinati da Rosende, selezionarono la documentazione utile per il dibattito sulla mozione di sfiducia mossa dal senatore Barreras in seguito all’assassinio del desmovilizado (ex guerrigliero) Dilmar Torres [NdT: il nome corretto è Dimar Torres] nel Catatumbo e ad altre denunce di violazione dei diritti umani da parte delle Forze Armate dopo la firma dell’Accordo di Pace con le FARC nel novembre del 2016.
La fuga di informazioni destinate al senatore Barreras – che infrangeva le norme della Missione – non fu concordata con Ruiz Massieau, date le riserve sul suo conto dovute alla presunta vicinanza con il governo di Iván Duque. Non era la prima volta che Rosende nascondeva informazioni a Ruiz Massieau. Come responsabile delle delegazioni regionali e locali della Missione, l’uruguagio negò al proprio capo l’accesso ai rapporti. «L’informazione vale oro e chi la maneggia a proprio piacimento è Raúl Rosende», rivela una fonte.
L’occultamento a Ruiz Massieu e il pericolo che la fuga di informazioni implicava per i funzionari che avevano raccolto sul campo notizie sul bombardamento – tra i quali Mario Paciolla – generarono una divisione interna alla Missione durante le settimane successive al dibattito. C’era chi celebrava la caduta del ministro e chi, prevedendo eventuali ritorsioni delle Forze Armate, protestava per la fuga di informazioni e la rottura dei canali ufficiali di comunicazione con il governo.
A tal proposito Roy Barreras, presidente della Commissione di Pace al Senato, ha negato di aver ricevuto materiale dalla Missione di Verifica dell’ONU sul bombardamento del Caguán, e ha ripetuto che le sue fonti sono stati ufficiali dell’esercito scontenti della condotta dei militari e degli abusi contro i diritti umani: «Ignoro come abbiano ottenuto loro le informazioni, ma posso assicurare con assoluta certezza di non aver ricevuto dalla Missione alcun documento né per questo né per altri dibattiti», ha dichiarato Barreras.
La Missione, da parte sua, ha rifiutato di rispondere alle domande formulate da chi scrive per fare luce sul caso. Oltretutto, Ruiz Massieau l’ha bloccata su Whatsapp. La capo ufficio stampa dell’organismo, Liliana Garavito, si è limitata a riportare la dichiarazione di Farhan Haq, portavoce di Antonio Guterres, segretario generale dell’ONU, diramata il 3 agosto a New York dopo i due articoli de El Espectador che avevano denunciato l’ostruzione alla giustizia nel caso di Mario Paciolla e l’alterazione del luogo dov’è morto il cooperante.
Ciononostante, sette fonti altamente credibili interne alla Missione, che hanno accettato di parlare a patto di restare anonime, hanno rivelato dettagli minuziosi – che chi scrive rinuncia a pubblicare per non metterle in pericolo – sulle discussioni e lo scambio di mail criptate nei giorni precedenti al dibattito del 5 novembre, sull’esultanza per la rinuncia di Botero, sui conflitti interni causati dalla fuga di informazioni e sul ruolo di Mario Paciolla nelle ricerche sul bombardamento, così come sull’attacco di hacker subito da vari funzionari della Missione.
È in questo contesto che Mario Paciolla iniziò a confessare di sentirsi “tradito”, “usato” e “sporco” nella Missione, e si preoccupò di eliminare ogni sua traccia dal web. «Voglio che nessuno possa dire che sono amico di qualcuno o possa mettermi in relazione con qualcun altro su Facebook», affermò a fine dicembre. Come dargli torto: il suo lavoro era stato usato per infliggere un attacco politico di grande portata che aveva fatto cadere il ministro della difesa ed esposto a gravi pericoli gli autori della verifica sul campo.
Il cooperante partì per l’Italia il 23 novembre 2019 e tornò in Colombia il 27 dicembre, per riprendere il lavoro a San Vicente del Caguán all’inizio di gennaio, e qui chiese il trasferimento. Lo scorso 11 luglio comunicò alla famiglia di sentirsi in grande pericolo e di voler tornare presto. Quello stesso giorno, in una conversazione in chat con un amico, Paciolla scrisse in italiano: “Voglio dimenticare per sempre la Colombia. La Colombia non è sicura per me. Non voglio mettere più piede in questo paese, né nell’ONU. Non fa per me. Ho chiesto il trasferimento da un po’ e non me l’hanno dato. Voglio una nuova vita, lontano da tutto”.
IL COMITATO DI INTELLIGENCE DELLA MISSIONE
Un mese prima della rinuncia del ministero della difesa, Guillermo Botero, prima delle elezioni regionali di ottobre 2019, un’altra fuga di informazioni in Antioquia mise in pericolo il personale sul campo della Missione, per la maggior parte volontari ONU, che avevano consegnato un rapporto in cui si ipotizzava la responsabilità delle Forze Armate in un attentato inizialmente attribuito alla guerriglia dell’ELN [Esercito di Liberazione Nazionale].
Il rapporto di verifica, realizzato nel formato stabilito dall’ONU, in cui sono riportati i nomi degli autori e alcuni dettagli che permettono la tracciabilità delle fonti, fu fatto arrivare al generale Juvenal Díaz Mateus, comandante della Quarta Brigata dell’Esercito. Nel leggerlo, Díaz andò su tutte le furie e chiamò il direttore della Missione in Antioquia, il catalano Francesc Claret. Furono tali le rimostranze e il timore generato dalla telefonata del generale, che lo stesso Raúl Rosende partì immediatamente per Medellín per ricomporre il rapporto con la Brigata e calmare i membri della Missione.
Questo evento si aggiungeva ad altri simili avvenuti negli ultimi due anni in diverse zone del paese, che, seppur con minori ripercussioni, hanno accresciuto la sensazione di mancata protezione nel personale della Missione incaricato di verificare l’adempimento dei punti 3.2 e 3.4 dell’Accordo di Pace tra governo colombiano e FARC: reintegrazione nella vita civile e garanzie per la partecipazione politica, garanzie di sicurezza e lotta contro le organizzazioni e le condotte criminali.
Secondo alcune fonti della Missione, tutti gli incidenti di fuga o trapelamento di informazioni hanno avuto un denominatore comune: il capitano della Marina ritirato dall’esercito Ómar Cortés Reyes, collaboratore della Missione dall’epoca del francese Jean Arnault, che nonostante il ruolo da consulente riceve via mail i documenti di verifica della Missione, a cui possono accedere solo gli autori, i superiori diretti in ogni regione e un numero ristretto di funzionari di alto livello a Bogotá. Nelle mani sbagliate, questi rapporti possono compromettere la sicurezza del personale della Missione, poiché si tratta di relazioni quotidiane, settimanali e bisettimanali, oltre che documenti situazionali e schede di verifica di carattere confidenziale.
Cortés Reyes, il cui grado è quello di tenente colonnello, è stato uno dei sette militari della sub-commissione tecnica per la cessazione del conflitto [con le FARC] al tavolo dei negoziati de L’Avana, impegnato in particolare nella definizione dell’armistizio e della consegna delle armi. È stato direttore dell’Intelligence della Marina Militare e, con questo ruolo, è stato membro della Giunta di Intelligenza Congiunta (JIC), massimo organismo deputato all’elaborazione delle analisi di intelligence e contro-intelligence per la presa di decisioni di alto livello da parte del governo nazionale, decisioni legate anche a operazioni militari e alla sicurezza nazionale.
Cortés e il suo diretto superiore nella Missione, il peruviano Yhon Medina Vivanco, capo dell’area di Garanzie di sicurezza, condividono con l’alto comando i rapporti dei funzionari sul campo con l’idea di voler costruire un rapporto di fiducia con i militari. «Ci usano per consolidare relazioni politiche di alto livello e ci mettono in pericolo con un maneggio irresponsabile di informazioni sensibili, il cui unico risultato è il rafforzamento di procedure di intelligence contro di noi originate nella stessa Missione», assicura un funzionario ritiratosi dall’organismo dopo una situazione simile a quella sofferta da Mario Paciolla.
IL MOUSE DI MARIO PACIOLLA
Così come le indagini interne alla Missione, quelle della Procura sul caso di Mario Paciolla non sembrano avanzare molto. Il mutismo dell’istituzione, che sembra confermare il patto di silenzio tra le autorità colombiane, l’ambasciata italiana e la Missione denunciato da Maurizio Salvi, corrispondente dell’Ansa in America Latina, non ha però evitato che tanto in Italia quanto in Colombia si venissero a sapere particolari come quelli denunciati da El Espectador sulla distruzione di prove nell’appartamento dov’è morto il cooperante.
L’ultimo dettaglio è legato al ritrovamento nella sede ONU di Bogotá del mouse del computer di Paciolla, che funzionari del Dipartimento di sicurezza e protezione delle Nazioni Unite avevano prelevato con altri effetti personali il 16 luglio, un giorno dopo la morte del cooperante, coordinati, secondo il giornale italiano la Repubblica, dal Responsabile della sicurezza della Missione nel Caguán, l’ex-militare ritiratosi dall’esercito Christian Leonardo Thompson Garzón.
Il dispositivo appare nell’inventario inviato dalla Missione ai genitori di Paciolla, che, però, nonostante gli annunci dell’ONU da New York, non hanno ancora ricevuto nessuno degli effetti personali del figlio. Quello che finora non si sapeva è che, secondo un’analisi realizzata da funzionari della Procura, il mouse era impregnato di sangue e che, nonostante questo, fu ripulito e prelevato dall’ONU dall’abitazione di Paciolla, ubicata nel quartiere Villa Ferro del municipio di San Vicente del Caguán.
Il ritrovamento del mouse nella sede centrale della Missione è stata confermata da tre fonti dell’organizzazione, indignate dalle grosse responsabilità di Christian Thompson, ufficiale ritirato dall’esercito colombiano e, prima di iniziare a collaborare con l’ONU, consulente in temi di sicurezza di varie multinazionali in giro per il mondo.
Germán Romero, avvocato in Colombia della famiglia Paciolla, sostiene di non sapere del ritrovamento del mouse sporco di sangue negli uffici della Missione a Bogotá, poiché non ha avuto ancora accesso al fascicolo completo, né sa se elementi come il rapporto sul bombardamento contro el Cucho o la presenza del capitano Cortés Reyes sono ventilati nel processo penale.
Nella Missione poche cose sono cambiate, a eccezione della chiusura dell’ufficio di San Vicente del Caguán, giustificato come misura precauzionale per evitare nuove situazioni di estrema pressione che potrebbero causare “un altro suicidio”. Ruiz Massieau è criticato sottovoce dai colleghi per la sua passività, la mancanza di leadership e l’incapacità di ripulire un’organizzazione dove si moltiplicano indagini interne poi archiviate, oltre a trasferimenti e promozioni di funzionari per convenienza, per non parlare del timore latente e del silenziamento di fatto che si è imposto dopo il decesso di Mario Paciolla. La Procura continua a tacere. (claudia julieta duque / traduzione di caminantes)
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