Palestina, l’Onu a Israele: “Liberate i detenuti politici”
Da sei settimane in sciopero della fame, trasferiti come forma punitiva in altre carceri israeliane e minacciati di alimentazione forzata: la protesta dei circa 125 detenuti politici palestinesi assume tratti drammatici, tanto da scatenare la reazione delle Nazioni Unite. Ieri il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, ha espresso grande preoccupazione per il deterioramento delle condizioni di salute dei prigionieri palestinesi che rifiutano il cibo come protesta per la pratica della detenzione amministrativa applicata senza sosta da Israele. E chiede a Tel Aviv di rilasciarli o di garantire loro un processo equo.
A preoccupare l’ONU, aggiunge l’Alto Commissariato per i Diritti Umani, è anche il disegno di legge in discussione alla Knesset che intende permettere l’alimentazione forzata dei prigionieri in sciopero. Un trattamento medico che non solo viola i diritti umani del detenuto, ma che in passato si è dimostrato estremamente pericoloso: si sono registrati numerosi casi di prigionieri morti durante un simile trattamento. La minaccia arriva direttamente dall’ufficio del primo ministro Netanyahu che sta premendo per l’approvazione di una legge che permetterebbe ai medici di nutrire con la forza i prigionieri in sciopero. Una pratica che viola le regole base dell’Associazione Medica Mondiale e condannata anche dall’Associazione dei Medici Israeliani: “L’alimentazione forzata è una tortura e nessuno dei nostri dottori ne prenderà parte”.
Il consigliere legale di Netanyahu, Yoel Hadar, ha parlato alla stampa della proposta di legge. L’obiettivo è costringere i giudici ad autorizzare l’alimentazione forzata, non solo se la salute del detenuto è a rischio, ma anche se a rischio sono gli interessi dello Stato: la morte di un detenuto palestinese non sarebbe una buona pubblicità per le autorità di Tel Aviv a livello internazionale e potrebbe provocare reazioni da parte della popolazione palestinese. Netanyahu si è detto tranquillo, dopotutto si tratterebbe di una pratica utilizzata dall’amico Bush nel carcere di Guantanamo. Ma i medici israeliani dicono no e rispondono al governo: nessuno dei nostri dottori obbedirà a simili ordini.
Al nutrimento forzato si aggiunge una serie di altre punizioni inflitte ai detenuti in sciopero per far cessare la protesta: “L’Israeli Prison Service ha vietato le comunicazioni con il mondo esterno – spiega l’associazione palestinese per i diritti dei prigionieri, Addameer – Non permette le visite dei legali e continua a trasferire prigionieri da un carcere all’altro; li pone in isolamento e nega le visite familiari; li multa fino a 50 euro; li costringe in celle vuote senza vestiti, posso tenere con loro solo un bicchiere d’acqua”.
Lo sciopero della fame in corso dal 24 aprile scorso, in ogni caso, prosegue guadagnandosi il sostegno della società civile palestinese che, all’esterno, manifesta e scende in piazza in solidarietà con il movimento dei prigionieri, da sempre colonna portante della resistenza palestinese. Ieri si sono tenute manifestazioni in tutti i Territori Occupati, dalla Cisgiordania a Gaza. Il timore di un veloce peggioramento delle condizioni dei 125 prigionieri sta montando: almeno 70 sono stati trasferiti in ospedali civili dove, accusa Addameer, “sono ammanettati al letto 24 ore al giorno. Alcuni dei detenuti hanno perso tra i 13 e i 20 chili, molti di loro soffrono di emorragie intestinali e altri vomitano sangue”.
La protesta è stata lanciata in risposta alla sospensione da parte israeliana della liberazione del quarto e ultimo gruppo di detenuti politici, previsto a luglio del 2013, come parte integrante della ripresa del negoziato tra Autorità Palestinese e Stato di Israele. Tel Aviv ha bloccato il rilascio dell’ultima ventina di prigionieri, provocando la reazione di Ramallah che ha fatto ripartire il processo di adesione a 15 organizzazioni e trattati internazionali.
I prigionieri in sciopero della fame chiedono prima di tutto la fine della detenzione amministrativa, una misura cautelare prevista dal diritto internazionale ma utilizzabile solo in casi speciali. Israele, al contrario, ne ha fatto uno dei capisaldi della propria politica di repressione della resistenza palestinese: detenzioni fino a sei mesi, reiterabili senza limiti di tempo, che non prevedono né processo né accuse ufficiali. Si finisce in prigione per “motivi di sicurezza”, sulla base di file segreti che né avvocati né prigionieri possono visionare. A maggio, secondo i dati raccolti da Addameer erano 192 i prigionieri in detenzione amministrativa, tra cui otto membri del Consiglio Legislativo Palestinese.
Da Nena News
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