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Per i giallo/verdi la BCE, ancora una volta. Per noi… Hic Rodhus, hic salta!

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Mentre la quotidiana fabbrica “del nemico” allestita da Salvini (un giorno i migranti, poi le ONG, poi la Francia, poi la Spagna, poi i rom, poi…) garantisce al neo ministro degli interni e leader della Lega Nord di dettare l’agenda setting e di affermarsi come polo egemone di discorso facendo subire a tutti, nessuno escluso (per ora), il suo ordine del giorno, è scivolata via una notizia politica decisiva da almeno un decennio per la politica di sistema in Italia e non solo: Mario Draghi in una conferenza stampa ha ricordato che sta per finire il suo ottennale mandato alla guida della BCE confermando fino all’estate del 2019 l’iniezione di quantitative easing (QE) per poi alludere ad una sorta di “la pacchia è finita” di natura finanziaria, visto che con ogni probabilità il suo successore sarà ostile alla prosecuzione di un QE “con altri mezzi”.

Questa notizia deve aver impensierito sia i think tank pentastellati che le navigate volpi leghiste, consigliando ad entrambi di lasciar fare al ministro degli interni con le sue martellate mediatiche e rimandare a data da destinarsi una presa di posizione sui futuri scenari finanziari nell’eurozona. Difficile oggi infatti per il governo riuscire a promettere le politiche di redistribuzione di reddito diretto e indiretto davanti alle affermazioni del presidente della BCE che con il QE è riuscito a malapena a garantire l’effimera tenuta delle politiche sulla spesa pubblica dei governi del Partito Democratico, punito per giunta dall’elettorato per le riforme dell’austerità.

Il QE è stata la risposta della BCE di Mario Draghi alla crisi del debito sovrano sud-europeo tramite la stampa di una quantità inaudita di moneta, finita direttamente nelle casse delle banche detentrici dei debiti statali, a cui si è fatto aggiungere una vera e propria stretta sistemica: non solo il paradigma bancario restava centrale ma si verticalizzava – da una parte con una ristrutturazione tecnologica foriera di tagli al personale, dall’altra con i requisiti patrimoniali di Basilea che hanno incentivato la fusione e la concentrazione degli istituti bancari – “distribuendo” (ovvero scaricando!) il rischio sui risparmiatori sempre in balia di algoritmi e procedure determinate dall’alto (in Italia è il caso del famigerato SalvaBanche di Renzi). Negli anni della maggioranza liberal-europeista a guida PD la questione sovrana è rimasta sottotraccia. Ma dopo il 4 marzo la situazione è cambiata, ed è ancora in gestazione. Ce lo ha segnalato il discorso di Mattarella del 27 maggio, che in piena crisi istituzionale aveva fatto riferimento al drastico aumento dei mutui come conseguenza della designazione dell’euroscettico Savona al ministero dell’economia. Ma questi aumenti si prospettano in ogni caso: la politica dei bassi tassi di interesse delle banche centrali (da cui derivano tutti gli altri tassi d’interesse, tra cui quelli immobiliari) sta volgendo al termine. Negli Stati Uniti c’è già stato un primo passo in questa direzione con risultati ambivalenti nelle economie dei paese emergenti come la Turchia. La fine del QE nell’eurozona potrebbe avviare un nuovo giro di crisi con conseguente impennata speculativa e smottamento anche delle scacchiere geopolitico interno. In Italia i giallo/verdi avrebbero margini di manovra ridotti al lumicino per attivare le promesse “populiste” di redistribuzione. La difficoltà di finanziare con debito le proprie attività impatterebbe sull’apparato statale (vincolato dal Fiscal Compact), sulle pensioni e su misure già compresse ben prima di essere implementate come il reddito di cittadinanza; i mutui alti sugli inquilini e proprietari di casa; e persino il progetto di flat tax potrebbe approfondire dinamiche da conflitto di classe. Tra l’altro va aggiunto che questo scenario si andrebbe a delineare a Brexit già apparecchiata che sia da un lato che dall’altro della Manica viene dipinta dalle elites liberal-europeiste come l’arrivo della nuova apocalisse.

Hic Rodhus, hic salta! Come si sta preparando il governo giallo/verde a questa più che probabile situazione? Se questa maggioranza sarà ancora al potere quali saranno i suoi indirizzi politici? Probabile la messa a regime di retoriche anti-UE, ma possiamo ritenere l’ennesimo “risarcimento simbolico populista” (come nel caso della fabbrica dei nemici sociali prodotti quotidianamente da Salvini) soddisfacente per quell’ampia sezione sociale che ha dato mandato elettorale di governo ai Cinque stelle soprattutto sull’istanza del reddito e su una domanda, confusa e approssimata, di sovranità, dove sovranità sta per “chi decide” sulla risorse? Per quanto il mantello tricolore riuscirà a mettere in forma questa domanda sociale?
Per smetterla di subire l’agenda setting di Salvini e posizionare l’iniziativa all’attacco crediamo che questi quesiti siano utili a sollecitare risposte e ipotesi di carattere organizzativo e di programma politico assumendo i movimenti del mercato finanziario come strategici anche per la prefigurazione dei movimenti sociali a venire. E’ qui che quella domanda di sovranità può essere scomposta dalla “preferenza nazionale” e ricomposta su una possibilità di rottura. La gabbia delle politiche suprematiste, se è indifferente agli editoriali di Saviano e agli allarmi della Degregorio, se insomma non ci sembra tutto sommato esposta a crisi per mezzo della mobilitazione d’opinione o di sdegno, anche di massa, morale, dall’altra parte è per sua natura efficace quando ha i mezzi e le risorse per redistribuire secondo la logica del “prima gli italiani” e mettere in forma la società con al centro la figura del “buon padre di famiglia ragionevole” che per primo pensa alla pagnotta per i figli e la moglie, poi per i cugini, poi per i vicini di casa e così via. Il blocco sociale “genericamente maggioritario” che ha dato mandato alla maggioranza di governo, soprattutto una considerevole fetta di elettorato pentastellato, non ci sembra addomesticabile in eterno dal “risarcimento simbolico populista”. Prima o poi l’istanza della sovranità, del “chi decide” su risorse e redistribuzione, se non realizzerà le promesse politiche decise sulla “preferenza nazionale”, tornerà ad esprimersi molto probabilmente nelle forme confuse, spesso passive, e per niente aderenti a schemi ideologici scontati. Ma si farà sentire e non è automatico che “la nazione”, questo frame perverso che oggi codifica la ripoliticizzazione del sociale, sia la traduzione comune della nuova rabbia della -gente-.
Arrivare a questo appuntamento disarmati di discorso, saperi, esperienze del conflitto sarebbe imperdonabile. Non è il momento, se mai lo è stato di fare gli spettatori e suggerire silenziose traversate di medio o lungo periodo nella notte. Se rifiutiamo il “frontismo socialdemocratico” è perché ne rifiutiamo il paradigma in toto, il sacchetto di popcorn non sta quindi nella cassetta degli attrezzi per la rottura e le possibilità antagoniste. Il terreno della razza, del genere e della generazione al di là dell’agenda setting del comando mediatico di “Salvini-comunicatore” sono già terreni di contesa ad alta tensione su cui è indispensabile regolare un punto di vista capace di cogliere nelle contingenze l’occasione.
Non è quindi l’attesa imbelle, la postura moralista, o la compiaciuta osservazione dell’ombelico la cifra dell’agire oggi, ma l’apertura dei conflitti sociali che si tendono nell’immediato sulla pelle, il corpo e l’età; e l’organizzazione per il futuro prossimo dove un nuovo giro di crisi finanziaria e sistemica è già qualcosa in più di una prefigurazione. Siamo pronti allora a parafrasare nella prassi l’esclamazione marxiana: “ecco qui la rosa, è il momento di danzare!”?

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