Riconciliazione palestinese: una nuova variabile nel panorama dei cambiamenti mediorientali
La notizia, annunciata mercoledì scorso e sancita dalla cerimonia ufficiale di oggi, ha colto di sorpresa tutti: dopo quattro anni di aspre divisioni, Hamas e Fatah, le due principali fazioni palestinesi che controllano rispettivamente Gaza e la Cisgiordania, hanno sottoscritto un accordo di riconciliazione.
L’accordo, raggiunto grazie al contributo determinante della mediazione egiziana, prevede la costituzione di un governo ad interim di unità nazionale composto da figure di alto profilo non affiliate a nessuna delle due fazioni, la ripresa delle attività del Consiglio legislativo (il parlamento palestinese rimasto paralizzato a causa del dissidio tra i due partiti palestinesi), l’unificazione dei servizi di sicurezza, la liberazione dei prigionieri politici delle due fazioni detenuti nelle carceri di Gaza e della Cisgiordania, la ristrutturazione dell’OLP in modo da permettere l’ingresso di Hamas nell’organizzazione, l’avvio della ricostruzione di Gaza, e la convocazione di elezioni parlamentari e presidenziali entro un anno.
Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha tenuto a precisare che il nuovo governo non sarà incaricato dei negoziati con Israele, i quali rimarranno prerogativa esclusiva dell’OLP e sua personale. Questa precisazione, e l’accortezza di voler costituire un esecutivo composto da “figure indipendenti”, hanno l’obiettivo di scongiurare che Israele e la comunità internazionale mettano subito in scacco il nuovo governo di unità nazionale riesumando la sequela di richieste che il Quartetto (USA, ONU, UE e Russia) aveva imposto al governo Hamas nel 2006 all’indomani della vittoria elettorale del movimento islamico palestinese: riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza (cioè alla resistenza armata), e accettazione degli accordi precedentemente firmati dall’ANP con Israele.
Si tratta di condizioni che Hamas ha fermamente ribadito più volte di non voler accettare, in primo luogo perché neanche Israele ha riconosciuto uno Stato palestinese né ha accettato di definire i propri confini, in secondo luogo perché Hamas non vuole rinunciare a quello che dal suo punto di vista è un “legittimo strumento di resistenza”, come precondizione a qualsiasi negoziato e non come conseguenza di un processo negoziale e del raggiungimento di un accordo (e intende in ogni caso continuare a mantenere la tregua a Gaza che in questi anni ha dimostrato di saper rispettare), ed infine poiché ritiene che lo stesso Stato di Israele abbia più volte violato, e tuttora non rispetti, gli accordi firmati con l’ANP.
UN NUOVO BOICOTTAGGIO A DANNO DEI PALESTINESI?
Ribadire che i negoziati rimangono sotto la giurisdizione dell’OLP (di cui Hamas al momento non far parte), e che il governo ad interim di unità nazionale sarà composto da “tecnici indipendenti” rappresenta dunque una manovra da parte palestinese – e di Fatah in particolare – per evitare che il nuovo esecutivo venga sottoposto allo stesso assedio a cui fo sottoposto il governo Hamas.
Tale manovra tuttavia appare probabilmente vana – e Abbas deve essere stato consapevole dei rischi a cui andava incontro – poiché il governo Netanyahu ha subito dichiarato che l’ANP deve scegliere tra la pace con Israele e la pace con Hamas. Come ulteriore misura, Tel Aviv ha deciso di sospendere (per ora temporaneamente, ma la misura è candidata a diventare definitiva) il trasferimento di milioni di dollari in entrate fiscali palestinesi all’ANP – una misura che fu già adottata da Israele tra il 2000 e il 2002 in coincidenza con la seconda Intifada, e tra il 2006 e il 2007 quando Hamas era parte integrante del governo palestinese.
Nel frattempo, non solo esponenti dell’estrema destra israeliana, ma anche alcuni membri del governo Netanyahu hanno affermato che Israele dovrebbe minacciare l’annessione della Cisgiordania come rappresaglia contro l’accordo di riconciliazione tra Fatah e Hamas.
Inoltre, alla sospensione del trasferimento delle entrate fiscali palestinesi – di fatto soldi palestinesi gestiti da Israele – potrebbe presto aggiungersi la sospensione dei finanziamenti americani all’ANP. Infatti, se alcuni membri dell’amministrazione USA hanno adottato un atteggiamento attendista e di cautela nei confronti del nuovo governo palestinese che potrebbe delinearsi, ben diversa è stata la reazione del Congresso. Negli Stati Uniti, Hamas è considerato un’organizzazione terroristica, ed è politicamente e giuridicamente molto difficile che dei soldi americani possano andare ad un governo che, malgrado le manovre palestinesi per renderlo “indipendente”, avrebbe di fatto il sostegno di una tale organizzazione.
Se si tiene conto che Obama si avvia alla sua corsa per la rielezione nel 2012, e che finora le pressioni della lobby israeliana a Washington sono sempre riuscite a piegare la volontà della Casa Bianca (di recente il caso più emblematico si è verificato quando gli USA hanno fatto ricorso al veto – per la prima volta sotto la presidenza Obama – per bloccare una risoluzione ONU di condanna degli insediamenti israeliani la quale ha avuto 14 voti favorevoli su 15, compresi quelli di Gran Bretagna, Francia e Germania), appare probabile che l’ANP dovrà confrontarsi con un nuovo boicottaggio americano qualora l’accordo di riconciliazione dovesse essere realmente implementato.
IL RICORSO ALL’ONU
Tale accordo, ed il conseguente braccio di ferro che già si prefigura tra l’ANP da un lato ed Israele – e probabilmente Washington – dall’altro, sono due fattori emersi all’improvviso mentre l’ANP era nel pieno della propria corsa per ottenere il riconoscimento di uno Stato palestinese in settembre da parte dell’ONU.
Sebbene un simile riconoscimento non si tradurrebbe certamente nella vera creazione di uno Stato, i vertici palestinesi ritengono che esso ridurrebbe lo spazio di manovra di Israele e renderebbe più difficile a Washington appoggiare incondizionatamente le politiche israeliane. In particolare, il presidente Abbas confida nell’appoggio dei paesi europei e delle potenze emergenti, in un contesto di crescente internazionalizzazione della questione palestinese che ha visto recentemente paesi come Brasile e Argentina riconoscere ufficialmente uno Stato palestinese indipendente entro i confini del 1967.
Tuttavia, se fino a questo momento a Tel Aviv e Washington i detrattori dell’iniziativa dell’ANP presso le Nazioni Unite affermavano che Abbas non poteva chiedere il riconoscimento di uno Stato palestinese in quanto egli non era rappresentativo del suo popolo, diviso in due entità separate guidate da due governi diversi a Gaza e a Ramallah, ora essi sosterranno che l’ONU non può riconoscere uno Stato governato da un’entità “terroristica”. La battaglia si preannuncia dunque aspra anche al “palazzo di vetro”.
Da quanto fin qui esposto emerge che le sfide che attendono il futuro governo palestinese di unità nazionale – se del tutto esso vedrà la luce – sono enormi. A questo punto ci si potrebbe chiedere cosa ha spinto le due controparti a stipulare un accordo di riconciliazione, dopo che per anni ogni forma di negoziato tra esse era sembrata inesorabilmente destinata al fallimento, e soprattutto cosa ha convinto il presidente Mahmoud Abbas a scommettere su questo accordo, alla luce dei rischi di boicottaggio con cui l’ANP dovrà confrontarsi in conseguenza di esso.
FALLIMENTO DEL PROCESSO DI PACE E SOLLEVAZIONI POPOLARI
E’ opinione di diversi analisti che a spingere Abbas in questa direzione sia stato il fallimento di tutto ciò su cui egli aveva puntato nel corso dei suoi anni alla presidenza: la scelta del negoziato a oltranza e la cieca fiducia nella mediazione americana, mentre gli insediamenti israeliani continuavano a espandersi senza sosta.
Molti ritengono che Abbas abbia definitivamente perso la fiducia nell’amministrazione Obama, dopo che quest’ultima si è dimostrata incapace di imporre a Israele il congelamento degli insediamenti, e addirittura ha continuato ad appoggiare le posizioni israeliane in sede ONU.
Ma il fallimento dell’amministrazione Obama ha sancito anche il fallimento personale di Abbas e delle sue politiche, e dunque la sua completa delegittimazione agli occhi dei palestinesi – soprattutto se si tiene conto che il suo mandato è ormai scaduto da tempo.
La posizione di Abbas si è ulteriormente complicata a seguito delle rivolte della cosiddetta “primavera araba” che, partendo dalla Tunisia, si è propagata in tutta la regione. L’ANP, ostaggio dei finanziamenti americani ed occidentali, è vista da molti arabi come un esempio della corruzione e dell’inettitudine dei regimi arabi, e del loro asservimento a potenze straniere come gli Stati Uniti.
La caduta di Hosni Mubarak ha poi rappresentato per Abbas la scomparsa del suo più importante alleato in Medio Oriente. Il nuovo regime egiziano non sembra intenzionato a giocare il ruolo di difensore dello status quo, e di partner di Israele e degli USA nell’assedio di Gaza.
Tutti questi elementi hanno convinto il presidente palestinese a giocare il tutto per tutto, puntando quel poco di capitale politico rimastogli su un accordo di riconciliazione con Hamas.
Per altro verso, il tramonto politico di Hosni Mubarak ha rimosso l’ostacolo più ingombrante nei rapporti tra il Cairo ed il movimento islamico palestinese. Il nuovo regime egiziano, che sembra essere in buoni rapporti con i Fratelli Musulmani egiziani di cui Hamas rappresenta per certi versi una costola, sta cercando di recuperare un ruolo indipendente a livello regionale, anche perché tale ruolo rappresenterebbe un potente fattore di legittimazione agli occhi dell’ancora turbolento fronte egiziano interno.
Non considerando più Hamas come un nemico esistenziale dell’Egitto, il nuovo regime del Cairo è riuscito a sua volta a guadagnarsi la fiducia del movimento islamico palestinese il quale lo ha accettato come garante dell’accordo di riconciliazione – a differenza di quanto aveva fatto con Mubarak.
Anche la scelta di Hamas, del resto, proprio come quella di Mahmoud Abbas, è stata motivata in parte da ragioni di debolezza. Assediato ormai da quattro anni nell’impoverita enclave di Gaza, isolato a livello internazionale ed in crisi di consensi nella Striscia, il movimento ha visto nelle scorse settimane la sua unica retrovia araba – la Siria, che ospita il capo dell’ufficio politico del partito, Khaled Meshaal – travolta dalle proteste popolari e dalla brutale repressione del regime di Damasco.
Hamas, che come detto non è altro che la branca palestinese della Fratellanza Musulmana, è venuto a trovarsi in una posizione imbarazzante dal momento che è ospite di un regime che in questo momento, a causa della sua condotta repressiva, è duramente criticato dai Fratelli Musulmani siriani, da quelli giordani e dallo stesso Yusuf al-Qaradawi, influente leader spirituale sunnita noto per le sue abituali apparizioni sugli schermi di al-Jazeera.
Inoltre, alla luce della destabilizzazione interna della Siria, il futuro della presenza di Hamas nel paese è a rischio, al pari di quella delle altre fazioni palestinesi tradizionalmente ospitate dal regime siriano. Nei giorni scorsi, alcune voci poi smentite (almeno fino a questo momento) avevano addirittura indicato che la leadership di Hamas avrebbe abbandonato Damasco per il Qatar.
Tutto ciò ha avuto un ruolo determinante nel convincere il movimento palestinese ad uscire dal suo isolamento a livello arabo, allacciando contatti con nuovi partner – il nuovo Egitto, e lo stesso Qatar, che ha calorosamente appoggiato l’accordo di riconciliazione – e cercando di rompere l’assedio di Gaza attraverso un accordo con il Cairo e con l’ANP. Tale accordo, anche secondo quanto ribadito dal governo egiziano, dovrebbe spianare la strada all’apertura del valico di Rafah con l’Egitto.
INCOGNITE DELL’ACCORDO E VARIABILI REGIONALI
L’accordo raggiunto tra Fatah e Hamas è dunque il frutto dello stallo del processo di pace, del fallimento della mediazione americana, e delle trasformazioni regionali che hanno visto il divampare delle proteste popolari e delle rivendicazioni di giustizia e democrazia in tutto il Medio Oriente, seguite dall’emergere di un nuovo governo al Cairo e dal pauroso vacillare del regime di Damasco.
La riconciliazione è poi un accordo di necessità, motivato almeno in parte dalle difficoltà in cui versano sia Hamas che Fatah. Pertanto tale accordo – che è stato accolto con favore dalla popolazione palestinese, la quale da anni chiede di essere rappresentata da un unico governo e da istituzioni unitarie – è esposto a numerose incognite e interrogativi.
La vera sfida sarà l’effettiva implementazione dell’accordo, tenuto conto che:
– Esso ha una forma molto vaga e comporta il rischio che la Palestina rimanga di fatto divisa in due entità separate: Gaza e la Cisgiordania.
– Sarà estremamente difficile armonizzare i servizi di sicurezza affiliati a Hamas con quelli dell’ANP addestrati e finanziati dagli USA.
– Fatah e Hamas dovranno accordarsi su un programma politico nazionale comune, che al momento non esiste.
– L’ANP è un’istituzione debole che per funzionare dipende in ogni cosa dalla buona volontà della potenza occupante.
– Non è chiaro fino a che punto l’Egitto, che è il garante dell’accordo, riuscirà a portare avanti la sua nuova politica indipendente qualora dovesse emergere una forte opposizione da parte di Washington.
Al di là di questi interrogativi, vi sono però variabili a livello regionale che, alla luce della situazione estremamente fluida che caratterizza il Medio Oriente in questo momento, potrebbero giocare a favore dell’accordo. Ad esempio:
1) Pur essendo certo che il governo Netanyahu farà di tutto per far fallire la riconciliazione, non è chiaro fino a che punto gli Stati Uniti, pur volendolo, siano in grado di esercitare pressioni realmente efficaci sull’ANP, sul Cairo e in sede ONU, alla luce della loro debolezza interna e del numero e della complessità dei fronti sui cui essi sono già impegnati sia militarmente che diplomaticamente – talvolta per difendere vitali interessi nazionali.
2) Sebbene Tel Aviv e Washington possano certamente imporre un boicottaggio finanziario all’ANP, la determinazione con cui Abbas ha mostrato di voler difendere l’accordo ha spinto diversi osservatori a ipotizzare che alcuni paesi arabi potrebbero essere disposti a coprire almeno in parte le spese dell’ANP (a questo proposito molti guardano all’Arabia Saudita, i cui rapporti con Washington in questo momento non sono idilliaci).
3) La capacità del Cairo di portare avanti una politica estera più assertiva e indipendente, di difendere l’accordo e di porre realmente fine all’insostenibile assedio di Gaza aumenterà se il nuovo regime egiziano riuscirà a stabilizzare la situazione politica ed economica interna, ad assicurarsi una reale legittimazione democratica, ed a trovare finanziatori esteri che aiutino il paese ad uscire dalla crisi che sta attraversando, eventualmente rendendolo meno dipendente dagli aiuti americani (il viaggio del primo ministro egiziano Essam Sharaf in Arabia Saudita, Qatar e Kuwait, la scorsa settimana, aveva anche questo fra i suoi obiettivi).
Certo è che – come ha scritto recentemente il presidente turco Abdullah Gul dalle pagine del New York Times – un accordo di pace israelo-palestinese rappresenterebbe un contributo essenziale a far sì che le rivoluzioni attualmente in corso in Medio Oriente portino a una nuova era di democrazia e di concordia nella regione. Ma è altrettanto vero che – come ha scritto l’ex consigliere dell’ANP Khaled Elgindy – non è pensabile che la pace possa essere raggiunta solo con una parte dei palestinesi, a spese dell’altra; o che i palestinesi debbano essere costretti a scegliere tra l’eventualità di restare in guerra con se stessi e quella di restare in guerra con Israele.
E’ dunque evidente che un accordo di riconciliazione tra i palestinesi è un passo necessario e imprescindibile per il raggiungimento di una pace equa e duratura in Medio Oriente. Nell’interesse della sicurezza, della stabilità e della democrazia nella regione, dunque, questo accordo non dovrebbe essere ostacolato né da Israele né dagli Stati Uniti.
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