Sul referendum nel Kurdistan iracheno
Alcune/i compagne/i ci mandano da Erbil (Kurdistan Iracheno) questo contributo.
Si sono appena svolte le prime libere elezioni del nord della Siria, e intanto a Sulaimaniya, nel Kurdistan iracheno, ci si prepara al referendum del 25 settembre per l’indipendenza della regione. La propaganda è alle stelle e mentre in tv i canali curdi passano continuamente spot per il “Si”, gli elicotteri di Barzani sorvolano la città: anche Sulaimaniya, la roccaforte di Talabani, leader dell’altro partito forte del Bashur, il Puk, è una tappa obbligata per i comizi del leader di Erbil. Qualcuno ci mostra un video: lo stadio è semi vuoto e sappiamo esserci state manifestazioni e proteste in una città blindatissima dalla polizia. Le dichiarazioni dei governi confinanti non si sono fatte attendere: la Turchia, che in questi giorni ha schierato i propri carri armati sul confine, parla di “avventurismo politico” e si dichiara pronta a misure straordinarie per garantire la sicurezza dei suoi confini e la stabilità della sua politica economica; Baghdad dichiara che non prenderà sul serio l’esito del voto e non consentirà “un’altra Israele in medioriente”; l’Iran, che oggi ha chiuso lo spazio areo e questa mattina ha bombardato a colpi di mortaio due villaggi nella campagna Erbil, parla di chiudere le frontiere e interrompere tutti gli accordi commerciali, mentre Israele si espone favorevolmente, non nascondendo la natura degli interessi che stanno dietro alla sua posizione.
Chiedendo a chi vive a Sulaimaniya cosa ne pensa e se andrà a votare, i commenti più frequenti riguardano la personalità e le politiche perseguite da Barzani, definito spesso come un “uomo ingiusto” che vuole questo referendum per mantenere il proprio potere, dopo anni di mandato ormai illegittimo. All’interno dello scontro politico emergono gli interessi legati ai giacimenti di petrolio: quelli di Kirkuk sono tra i più grandi dell’Iraq. Proprio per questo la città è contesa, dal Pdk di Barzani e dal Upk di Talabani da una parte e quelli del governo iracheno dall’altra.
Questo referendum “non serve davvero, è tutta questione di soldi” – dice un profugo di Kobane che abita a Sulaimaniya – “ed è la strategia sbagliata, prima dobbiamo pensare a vincere in Rojava”. Oggi “il Basur è completamente dipendente da Turchia e Iran, non si produce nulla, non ci sono fabbriche e industrie. La gente vuole elettricità e servizi e spesso queste cose non ci sono. Non pensano davvero alla gente. Il problema non è quanto Barzani o Talabani siano più o meno democratici o cattivi, il problema a monte è che se anche pensassero di fare gli interessi delle persone e di renderle sicure, non è in questo modo che riusciranno a farlo. Questo referendum non ha senso perché non è l’ora di chiedere l’indipendenza da Baghdad, sarà l’ora di farlo quando avremo risolto questi problemi economici e politici… e questo i curdi lo sanno”.
In merito al referendum il PKK da mesi sostiene che tutti i curdi, anche quelli iracheni, abbiano il diritto all’autodeterminazione. “Noi vogliamo la libertà da Baghdad”, continua, “ma il problema di questo referendum è che riguarda l’indipendenza del Kurdistan d’Iraq, ma il Kurdistan è anche in Siria, Iran e Turchia e questo governo non lo accetta, noi vogliamo la libertà per tutto il Kurdistan e tutti i curdi” e “non possiamo accettare un governo che ostacola i nostri fratelli e che combatte contro Baghdad più per il petrolio che per le persone”. Da questa parte della regione non sembra ci sarà grande affluenza alle urne. Chiedendo cosa potrebbe accadere dopo il voto, e la probabile vittoria del “si”, le risposte spaziano dal “qualsiasi cosa” al “non succederà proprio nulla perché gli Usa non permetteranno a Turchia e Iran colpi di testa”. Intanto pare che gli abitanti di Kirkuk stiano facendo provviste per i prossimi giorni e che giungano voci discordanti in merito a un rinvio dei seggi.
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