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Tolto l’assedio a Cizre, si contano i morti e i danni

di Luigi D’Alife – da Il Manifesto

A par­tire dalle ele­zioni poli­ti­che del 7 giu­gno scorso e con l’attentato di Suruç, costato la vita a 33 gio­vani socia­li­sti che por­ta­vano aiuti a Kobane, la Tur­chia sem­bra essere ripiom­bata indie­tro di vent’anni: da un lato, l’ex primo mini­stro — ora pre­si­dente della Repub­blica — Erdo­gan, da tre­dici anni al potere, dall’altro il popolo kurdo, soste­nuto dalla sini­stra del Par­tito demo­cra­tico dei Popoli (Hdp).

La popo­la­zione di Cizre, ha dichia­rato 15 giorni fa l’autogoverno o come la defi­ni­sce il co-presidente del muni­ci­pio «l’autonomia demo­cra­tica». «Dopo pochi giorni, circa cento mezzi blin­dati dell’esercito sono entrati in città — ci spiega Fay­sal Sariy­il­diz — e un copri­fuoco con­ti­nuo è stato impo­sto a tutta la popo­la­zione. Cor­rente elet­trica, acqua e ser­vizi di comu­ni­ca­zione sono stati inter­rotti. Un incubo».

Gli ospe­dali di Cizre sono stati iso­lati dai mili­tari tur­chi, i soc­corsi in strada impe­diti con l’uso delle armi, così come la sepol­tura delle vit­time. A Cizre, città a mag­gio­ranza musul­mana, per otto giorni gli imam non hanno can­tato. Il bilan­cio è di cento feriti e 21 morti, tutti civili, tra i quali un bimbo di 35 giorni. Quin­dici tra le vit­time sono state col­pite diret­ta­mente alla testa dai cec­chini. Ora che il copri­fuoco è inter­rotto la gente si riprende le strade in cor­teo ricor­dando i civili uccisi. In testa ci sono le madri delle vit­time, ovun­que si sen­tono cori, grida, slo­gan, ovun­que si vedono bar­ri­cate e trin­cee. Cor­tei che si ingros­sano men­tre attra­ver­sano vie strette, ancora pro­tette da massi e sac­chi di sab­bia, dai teli per impe­dire ai cec­chini di ucci­dere, men­tre supe­rano le sara­ci­ne­sche esplose e i muri distrutti.

A Cizre è stata guerra ed è il quar­tiere di Sur a mostrare le ferite più evi­denti. «Siamo stati costretti a restare chiusi in casa per dieci giorni — ci spiega una donna davanti alla porta di casa cri­vel­lata di pro­iet­tili — era­vamo in 22 nello stesso appar­ta­mento, bam­bini ed anziani, senza cibo e sotto il fuoco costante dei cec­chini». Suo marito indica i palazzi da dove arri­va­vano gli spari ed affac­cian­dosi alla fine­stra mostra un forno distrutto da un carro armato. Un gruppo di bam­bini si rin­corre per strada, gio­cando davanti ad uno dei mezzi blin­dati che ancora cir­con­dano il quartiere.

«Siamo ter­ro­riz­zati — urla un signore sulla cin­quan­tina davanti al can­cello di ferro divelto della sua casa — il copri­fuoco non c’è più, ma non siamo liberi di uscire». La dele­ga­zione della Caro­vana per Kobane, pre­sente in Kur­di­stan in que­sti giorni, è diven­tata il mega­fono per la gente di Cizre. Cizre è come Kobane: stesse scritte sui muri, stesse mace­rie per le strade, stessa deter­mi­na­zione del popolo kurdo a resistere

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