Un implicito accordo tra potenze. Attaccare il Kurdistan strumentalizzando la Palestina?
Un approfondimento di Infoaut sulle novità in merito alla questione palestinese, tra tentativi reazionari di utilizzo della resistenza, grandi e infami giochi geopolitici, volontà di colpire oltre i Territori Occupati.
Come noto, poco più di una settimana fa, nel corso di una dichiarazione pubblica che ha fatto in pochi minuti il giro del mondo, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato la storica decisione di riconoscere ufficialmente la città di Gerusalemme come capitale dello stato di Israele.
La portata politica di questa scelta nel contesto del conflitto israelo palestinese è stata immediatamente resa manifesta dalle reazioni degli attori più direttamente coinvolti. Mentre i più eminenti esponenti del governo e dell’intellighenzia israeliana cantavano vittoria, inneggiando al coraggio di Trump e al tanto atteso riconoscimento della completa legittimità dei propri supposti diritti di sovranità, dall’altra parte del muro si faceva incontenibile l’esplosione della desolazione e della collera che negli scorsi giorni ha dato vita ad importanti momenti di piazza, con cortei di massa che hanno paralizzato le principali città palestinesi.
Pare evidente come la dichiarazione di Trump, legittimando di fatto ulteriormente lo stato di apartheid imposto con la forza dagli apparati militari dello stato israeliano, apra le porte a un inasprimento delle condizioni di vita dei palestinesi e al progetto colonizzatore israeliano. Allo stesso tempo, tuttavia, non si può che constatare come la decisione del governo americano, a ben guardare, colpevolmente narrata da certa opinione pubblica nostrana come del tutto stupefacente e imprevedibile, non possa che sorprendere unicamente gli osservatori più superficiali.
Del resto che da più di mezzo secolo gli Usa forniscano un supporto militare, economico e propagandistico alla politica di occupazione territoriale, segregazione e deprivazione materiale perpetrata dallo stato di Israele nei confronti del popolo palestinese è cosa largamente nota a chiunque si sia mai occupato di politica internazionale. A riprova di quanto detto basterebbe ricordare come in realtà l’azione di Trump consti semplicemente nel rendere attuativa una legge già elaborata da decenni dall’establishment statunitense e che, approvata in prima istanza nel 1995, era rimasta di fatto inerte fino alla scorsa settimana.
A questo proposito, tuttavia, il fatto stesso che sia stato riesumato ad anni di distanza un progetto precedentemente messo in sordina a vantaggio di una politica bifronte, connotata dal sostegno di fatto ai piani di espansione israeliana e dal presunto impegno per la pace che ha caratterizzato a fasi di intensità alterne la politica americana nell’area, deve per forza di cose indurre una riflessione sulle cause e il significato delle conseguenze che una scelta politica di questa portata può comportare.
Da un lato sicuramente un peso nella decisione del governo americano lo hanno avuto alcune considerazioni di politica interna. Non sembra infatti improbabile che, già lavorando nella prospettiva della prossima tornata elettorale, il presidente abbia ritenuto d’uopo dare il segnale di essere in grado di fare seguito alle proprie promesse, dimostrando, per mezzo di operazioni capaci di rappresentare a livello fortemente simbolico la rottura con il passato, di essere all’altezza delle aspettative che aveva costruito attorno alla propria immagine nel corso della campagna mediatica con la quale era riuscito ad ottenere la presidenza.
Più nello specifico la mossa di Trump, limitatamente alla politica interna, va probabilmente interpretata come un ulteriore passo nella declinazione pratica di quell’America first che, nella prospettiva di un nuovo auspicato unilateralismo nel perseguimento degli interessi nazionali e di un più efficace pragmatismo nella risoluzione delle controversie internazionali, tanto aveva mobilitato le coscienze del conservatorismo a più livelli diffuso nella società statunitense.
Fatte salve queste considerazioni, tuttavia, quel che più sembra dirimente è considerare le conseguenze di questa scelta politica nel contesto dell’inasprimento della competizione interimperialistica globale, in particolare per quel che concerne lo scacchiere mediorientale. La decisione dell’amministrazione americana di riportare pesantemente al centro dello scenario politico del Medio Oriente la questione israelo palestinese affonda infatti le sue radici nell’attuale conformazione dell’equilibrio di potenza nell’area e trova le sue ragioni più profonde nel tentativo statunitense di inclinare quest’ultimo in direzione dei propri interessi geopolitici.
A questo proposito non può passare inosservato il fatto che l’annuncio di Trump arrivi nella settimana in cui, dichiarati l’eliminazione dello Stato Islamico e il conseguimento dei principali obiettivi bellici, la Russia di Putin proclami ufficialmente l’intenzione di cominciare il ritiro delle proprie truppe dalla Siria. La possibilità russa di dichiarare una così schiacciante vittoria simbolica e politica sul campo, non può che mettere gravemente in difficoltà la leadrship americana che, proprio contro il paese guidato da Putin, da diversi anni ha ingaggiato una serrata battaglia, combattuta sul piano del potere economico, del prestigio e del ruolo geopolitico.
Il fatto che l’intervento militare russo si sia dimostrato così efficace tanto nel conseguimento dei propri interessi immediati quanto nel dimostrarsi un attore forte e credibile agli occhi degli avversari e degli alleati, cosa ulteriormente confermata dal giro di visite più che cordiali che sempre la scorsa settimana il capo del Cremlino ha fatto in importanti paesi dell’area, mette senza dubbio in imbarazzo gli Usa, non solo nella misura in cui questi vedono rafforzarsi il nemico che, fino a pochi anni fa, credevano di aver messo con le spalle al muro, ma anche perché temono che, a traino del capitale egemonico di quest’ultimo, possa ulteriormente cementificarsi un blocco di stati pericolosi e ostili ai propri interessi.
Letto in relazione alla contrapposizione al rafforzamento dell’influenza russa nell’area mediorientale, il gesto politico di Trump si presta ad essere interpretato come un energico tentativo di scompaginare le carte in tavola, mettendo in chiaro ai propri alleati e ai propri nemici il peso potenziale della propria assertività. Questo vuol dire che, in una certa misura, gli Usa hanno voluto ricordare a tutti i principali attori dell’area che il proprio peso militare ed economico è ancora tale per cui possono permettersi di imporre soluzioni unilaterali, costringendo, gioco forza, i propri alleati, volenti o no, ad allinearsi, e i propri avversari a rimanere osservatori con scarse possibilità di reale contrapposizione.
Un tipico esempio di alleati costretti ad allinearsi contro la propria volontà è costituito dai principali stati dell’Unione Europea i quali, pur dichiarandosi a parole pressoché all’unanimità assolutamente contrari alla decisione di Trump, hanno un’altra volta dimostrato, con il proprio completo immobilismo, l’assenza di capacità e volontà da parte europea di perseguire una politica estera indipendente dagli interessi strategici che gli Usa fanno valere sulla base del proprio ruolo preponderante nella Nato.
Più complessa risulta invece essere la questione per quel che riguarda gli alleati americani nel mondo arabo, nella misura in cui essa, per essere a fondo compresa, va contestualizzata più compiutamente analizzata nella congiuntura attuale degli equilibri di potere in Medio Oriente. Se infatti formalmente la condanna del mondo arabo alla dichiarazione di Trump sia stata unanime, sono piuttosto significative le differenza delle prospettive dei vari paesi, in relazione dei propri rapporti con gli Usa.
In particolare, la maggior parte degli stati del golfo, molto legati agli interessi americani, ha da subito assunto una posizione tiepida nei confronti della scelta politica dell’amministrazione Trump, limitandosi alle condanne verbali, segnando una profonda linea di demarcazione nei confronti di quella che era stata la propria politica in relazione alla questione isreaelo palestinese nei decenni precedenti. Su tutti spicca senza dubbio l’Arabia Saudita che in ragione dei propri interessi economici sempre più connessi con quelli israeliani e della necessità stringente di Bin Salman, attualmente fulcro della politica saudita, di mantenersi stretto l’appoggio americano per questioni di opportunità connesse alla propria politica interna e internazionale, non ha annunciato nessun concreto provvedimento per ostacolare la decisione di Trump.
Nel contesto dell’area tuttavia, malgrado il sostanziale allineamento degli alleati, la politica statunitense potrebbe rivelasi un pericoloso boomerang, nella misura in cui rischierebbe di favorire indirettamente i propri avversari principali, consentendo loro di raccogliere il frutto politico del malcontento che l’operazione effettuata ha suscitato nelle masse arabe. L’Iran, ad esempio, potrebbe giocare un ruolo importante nella contestazione della scelta di Trump, cosa che gli tornerebbe comoda in funzione della sempre più aperta contrapposizione con l’Arabia Saudita e nella prospettiva di cominciare a smarcarsi dall’isolamento in cui era stato relegato negli ultimi anni dall’universo sunnita.
Più di tutti, tuttavia, sembra il primo ministro turco Erdogan ad essere deciso a raccogliere i frutti della nuova vampata di anti-americanismo di massa, ponendosi a guida dei paesi arabi nella difesa della causa palestinese. Le parole di fuoco che quest’ultimo ha rivolto alla leaderschip americana, infatti, tradiscono le tensioni egemoniche dei massimi vertici turchi, ormai pienamente stabilizzati a seguito del mancato golpe e del riavvicinamento con Mosca, che per quanto contraria alla decisione di Trump non ha però in alcun modo attaccato Israele con cui ha forti relazioni economiche e da qualche tempo anche militari.
Proprio il ruolo rivestito da Erdogan in questa fase, se letto con le giuste lenti, può condurci a comprendere la necessità di interrogarsi, a partire dalla recente evoluzione del conflitto israelo palestinese, oltre che sugli eventuali risvolti dei giochi geopolitici, sul senso possibile di un nuovo scenario di pace in Medio Oriente.
Il gioco politico di Erdogan, infatti, principale nemico dei popoli della Siria del Nord che si erge a paladino della causa palestinese, consiste nel tentativo di rilanciare la propria propensione egemonica sulla base di una riabilitazione su scala regionale di una forma di demo islamismo, ossia una delle principali ipotesi politiche emerse dallo straordinario dispiegamento di forze sprigionato dalle primavere arabe e uscito pesantemente sconfitto nell’esperienza egiziana di Morsi e dei Fratelli Musulmani.
Questa ipotesi, chiaramente, vede con ostilità entrambe le altre formulazioni politiche generate dalle rivolte del 2011, quella del nuovo radicalismo islamico, già seriamente compromesso con la sostanziale sconfitta dello Stato Islamico, e, ancor più nettamente, quella del confederalismo democratico, che, tuttora in via di sperimentazione nella Siria del Nord, ha l’ambizione di poter fungere da modello per la pace in tutto il Medio Oriente. In questo senso, le prospettive di pace del mondo politico legato ad Erdogan e quello della rivoluzione del Rojava non possono che dirsi radicalmente confliggenti.
Da questo punto di vista diviene chiaro come, per il popolo palestinese, lo scenario si stia andando a complicare ulteriormente, nella misura in cui, oltre al sempre più impellente compito della resistenza, si pone ora all’ordine del giorno il pericolo dell’utilizzo della propria causa a fini sostanzialmente reazionari. Una sfida ancora più dura di quante già affrontate nella storia degna di resistenza del popolo di Palestina. Nostro compito qui sarà cercare di dare sostegno e sponda ad ogni volontà da parte di chi lotta nei Territori Occupati, dando respiro internazionale alla causa palestinese, forti della spinta ad un nuovo internazionalismo che arriva dal Rojava e sulla base della storica e necessaria solidarietà a chi si oppone alle politiche assassine dello stato sionista in Medio Oriente.
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