
“Unitevi alla lotta del Rojava”. Intervista ai compagni dell’International Freedom Battallion
L’intero conflitto siriano è, a ben vedere, un conflitto globale, e non soltanto per le migliaia di foreign fighters che combattono per lo stato islamico o Jabat Al-Nusra (Al-Qaeda) giungendo dalle comunità islamiche sunnite dell’Indonesia e della Francia, della Malesia e della Cecenia, fino all’Afghanistan, al Marocco e agli Stati Uniti; il carattere globale della guerra siriana è ormai ampiamente determinato anche dal fronte lealista, dove accanto all’esercito arabo siriano di Bashar Al-Assad combattono le milizie libanesi Hizbollah e i soldati e foreign fighters russi e iraniani, fino a formazioni sciite di profughi afghani in Iran, milizie sciite irachene e formazioni di profughi palestinesi.
Il fronte confederale del Rojava comprende, nelle Forze Democratiche Siriane a guida Ypg, diverse formazioni arabe, turcomanne, curde e assire, e le Ypg stesse, come detto, sono un florilegio di lingue e identità che vanno dalla Circassia all’Azerbaijian, dall’Armenia all’Iraq, passando per combattenti sauditi, iraniani e israeliani, statunitensi ed europei, australiani, neozelandesi e sudamericani. Questa condizione ha naturalmente prodotto una sorta di caos linguistico, culturale e spesso anche ideologico. L’intervista che segue rappresenta un ulteriore tassello, nel lavoro che Infoaut e Radio Onda d’Urto stanno portando avanti, per la ricostruzione di una mappatura soggettiva del fronte confederale in Siria.
I compagni che rispondono alle domande che seguono sono combattenti dell’International Freedom Battallion, creato da militanti politici provenienti dall’esterno della Siria, uniti dalla volontà di creare un’unità militare interna alle Ypg caratterizzata dall’adesione all’idea di un nuovo internazionalismo rivoluzionario. Scopo del battaglione, diversificato politicamente, è a un tempo promuovere l’unificazione dei militanti della sinistra rivoluzionaria globale nella guerra siriana, e una maggiore partecipazione dei compagni stranieri alla resistenza del Rojava.
Chi siete, e perchè avete deciso di venire in Rojava?
A: Vengo dall’Europa e sono attivo nella scena rivoluzionaria del mio paese da una decina d’anni. Sono passato attraverso diversi gruppi anarchici e antifascisti, adesso però mi considero soltanto un rivoluzionario, non desidero altre etichette, dobbiamo trovare nuove ispirazioni (anche partendo dal Rojava) creare qualcosa di nuovo.
B: Io vengo dal Sud America, ho una storia molto simile a quella di A, per dieci anni sono stato in diversi gruppi comunisti e anarchici.
A: Ero in contatto con dei giovani curdi da quasi due anni, sostanzialmente a partire dalla resistenza di Kobane. Prima non sapevo molto del movimento curdo, da lì è nata la volontà di creare un link con dei curdi nella mia città, e dopo due anni ho deciso di venire in Kurdistan, è stata una mia scelta indipendente, volevo vedere la pratica della rivoluzione e non soltanto la teoria.
B: Se sei un rivoluzionario devi essere parte di ciò che accade nel mondo, le rivoluzioni sono sempre fonte di grande ispirazione, è un dovere per i rivoluzionari di tutto il mondo partecipare ed è anche una grande occasione storica per apprendere politicamente.
Avete deciso di unirvi a un battaglione particolare che opera all’interno delle Ypg: il Battaglione Internazionale per la Libertà. Potete dirci di cosa si tratta?
A: È un’unità speciale del Rojava formata da combattenti internazionalisti, per lo più comunisti, ma anche anarchici. Al suo interno operano diverse formazioni comuniste turche e compagne e compagni dal resto del mondo, anche se crediamo che i militanti occidentali dovrebbero essere di più. Questo battaglione si distingue leggermente dalle altre unità Ypg per delle sfumature, ad esempio la separazione tra donne e uomini nella vita quotidiana è meno rigida, lavoriamo insieme e le formazioni sono miste, mangiamo anche insieme.
Direi che in questo battaglione si vive un’esperienza che ricorda maggiormente lo stile occidentale. Non si tratta di una critica alle altre unità Ypg, semplicemente ci troviamo meglio così; le donne, in ogni caso, hanno la loro assemblea autonoma. Nelle Ypg donne e uomini si mischiano sostanzialmente solo per il “morale”, ossia i momenti di festa, e il combattimento sul fronte.
Cosa intendi quando dici che i compagni occidentali che combattono in Rojava dovrebbero essere di più?
A: L’adesione c’è, ma non è ancora soddisfacente. Molti dei foreign fighters che combattono qui non sono politicizzati, quindi è possibile che questo abbia causato una cattiva immagine presso alcuni compagni che vivono in occidente. Un’altra ragione può essere che l’Ifb ha interrotto la sua propaganda in rete circa sei mesi fa, o ancora che si sia diffusa un’immagine sbagliata del battaglione stesso, come se fosse una formazione marxista-leninista.
Da questo punto di vista teniamo a mandare un messaggio preciso ai compagni in Europa: non è necessario avere una specifica ideologia per far parte dell’Ifb. Chiaramente è necessaria disciplina, ma questo è dovuto alla condizione di guerra, non all’ideologia: tanto la disciplina quanto l’organizzazione sono necessarie. Chiunque può intervenire nelle assemblee e criticare le scelte dell’unità, anche duramente, ci sono state svariate discussioni al nostro interno. Semmai il problema, con persone che vengono da paesi diversi, può essere la lingua, ma anche questo problema verrebbe attutito con la partecipazione.
B: Ciononostante è anche necessario precisare che il nostro invito non è rivolto a chi non ha alcuna idea politica o voglia di averne, l’Ifb è un’unità politica rivoluzionaria e il nostro obiettivo è quello di creare una dinamica di amicizia rivoluzionaria mondiale e con il Rojava: per entrare nell’unità occorre riconoscersi nella sinistra rivoluzionaria mondiale. Le altre unità Ypg sono più indicate per chi intende formarsi ideologicamente o avvicinarsi per la prima volta alla politica, l’Ifb è caratterizzato da un livello di discussione politica più avanzato.
Cosa pensate dei combattenti non politicizzati nelle Ypg? Qual è la vostra impressione su di loro?
A: Non è possibile metterli tutti nella stessa categoria. Alcuni hanno atteggiamenti che non ci piacciono, chiaramente contrari a una logica rivoluzionaria; ad esempio c’è chi, tra loro (in particolare alcuni ex militari) non esita a dire che partecipa qui perché è Siria, ma se le Ypg combattessero in Turchia sosterrebbe la Turchia perché è un paese Nato. Alcuni hanno anche un atteggiamento culturalmente coloniale, pensano sempre di dover insegnare ai curdi cosa devono fare.
Ciononostante, non mancano anche ex militari che restano intrigati dalla rivoluzione e dai curdi e, magari, pur essendo stati anche quindici anni in un esercito occidentale, finiscono con l’apprezzare molte cose e dicono che vogliono magari portare il Taqmil [L’assemblea che si svolge in tutte le organizzazioni del movimento curdo, Ndr] nel loro luogo di lavoro quando tornano nel loro paese. Magari insistono che sono disinteressati alla politica, ma in realtà apprezzano molte cose e diventano più “politici” di quanto pensino.
Anche se può sembrare strano a chi non vede il Rojava con i propri occhi, qui ci sono anche ex militari statunitensi che hanno combattuto in Iraq e Afghanistan e adesso hanno sposato una visione antimperialista perché hanno visto con i propri occhi che ciò che faceva il loro paese nei territori che occupavano era sbagliato. Insomma, c’è una grande varietà di persone, ma non manca anche gente che consideriamo spazzatura.
Potete darci una descrizione generale, invece, dei compagni e delle compagne internazionalisti che combattono in Rojava? Che tipo di soggetti sono?
B: I combattenti politicizzati che si battono in Siria sul fronte confederale sono persone, molto semplicemente, che vogliono aiutare la rivoluzione nella pratica. Le ideologie di provenienza sono le più diverse: ci sono i trotzckisti come gli anarchici, gli stalinisti, gente che milita in partiti e gente che fa militanza fuori dai partiti, c’è anche gente che fa parte di partiti rappresentati in parlamento nel proprio paese, benchè sia qui a livello individuale.
Nel nostro battaglione non mancano le discussioni, come ci si può immaginare da questo scenario. Ad esempio secondo me ci sono stati momenti in cui alcuni combattenti hanno mostrato una mentalità troppo chiusa, magari cercando di far passare la visione teorica del proprio gruppo in una formazione che invece non può che essere aperta e plurale. Non dobbiamo insegnare, in verità, qui, ma imparare, perché il movimento curdo è oggi l’avanguardia mondiale, è l’unica organizzazione che sta facendo una rivoluzione.
Invece non mancano quelli che vengono qui e dicono: “Questa non è la vera anarchia!” oppure “Questo non è il vero marxismo-leninismo!”. Questo è colonialismo politico: è lo stesso che, in forma solo in parte diversa, fanno alcuni dei foreign fighters apolitici di cui parlavo prima.
Se doveste menzionare una cosa importante che avete imparato qui, cosa direste?
A: A me è servito per capire che abbiamo bisogno di una forte organizzazione che lavora prima della rivoluzione e la prepara e lavora sottoterra lentamente, per propiziare il momento in cui, se lo stato crolla – come è avvenuto in Siria – può prendere il suo posto perché è già pronta: questo ha fatto il partito qui e questo dovremmo fare noi in Europa. Non è certo l’unica cosa che ho imparato, ma è la più importante forse.
B: Se dovessi rispondere con uno scherzo, direi che qui ho imparato a mangiare gli spaghetti con il cucchiaio, cosa che può capitare nelle situazioni improvvisate cui ovviamente costringe la guerra. In realtà, però, non è uno scherzo: dobbiamo procedere con ciò che abbiamo, essere creativi con i mezzi che abbiamo. È quello che hanno fatto i curdi, che anziché creare confini tra le persone, li hanno distrutti.
Dopo la vostra esperienza qui, vi siete fatti un’idea del perché i movimenti rivoluzionari europei sono in così grave difficoltà?
A: Non c’è una buona organizzazione, che sia abbastanza forte e intelligente da durare nel tempo e aggregare, e si passa il tempo a criticare e basta, a costruire barriere tra la gente. Nel partito, qui, non c’è una sola opinione, benchè il punto di vista teorico di Ocalan sia molto importante. La verità è che convivono visioni diverse che lavorano assieme. In Europa, invece, si criticano solo gli altri e si litiga e basta, non si cerca di lavorare assieme, mentre dovremmo farlo, anche se non la vediamo allo stesso modo su tutte le cose.
Ciò che manca in Europa è anche la volontà di affrontare il pericolo, non soltanto il pericolo per la propria vita ma anche quello di perdere le propria comodità. Bisogna venire qua e combattere, troppa gente adduce problemi di studio o di lavoro, ma ad esempio io ho lasciato entrambi per venire. Se non si accetta il pericolo non si è rivoluzionari.
Non manca, in Europa, chi critica aprioristicamente la scelta di imbracciare le armi. Che cosa rispondereste a questa critica?
A: È facile esprimere queste posizioni nell’Europa di oggi, ossia in un contesto pacifico, ma non si può, in verità, giudicare il modo in cui le persone si comportano in una situazione di guerra se non si è con loro, se non si condivide la loro esperienza. Se molti vedessero la guerra con i loro occhi cambierebbero radicalmente opinione.
B: In Europa è facile discutere di queste cose in astratto, perché non c’è una minaccia immediata di violenza. Qui hanno costruito una società e hanno aspettato che lo stato cadesse, ed ora la difendono: è normale, se non c’è una minaccia incombente è diverso, il “non violento” avrà sempre la possibilità di scegliere. Qui non c’è scelta, non è questione di “radicalità”.
A: Una delle discussioni che abbiamo avuto recentemente tra combattenti internazionalisti ha riguardato la partecipazione alla guerra di ragazzi giovani, che hanno anche sedici o diciassette anni. Adesso che in Europa c’è la pace tutti sono pronti a criticare, ma durante la Resistenza in vari paesi europei c’erano persone di quell’età ad aiutare o anche a combattere. Alcuni dei ragazzi che vivono qui hanno visto soltanto oppressione e guerra, ma anche i giovani possono essere in grado di prendere una decisione, e decidere in tutta lucidità di lottare.
B: Questi giovani sono minacciati, perché non dovrebbero difendersi in prima persona? Io non ho visto persone di questa età combattere, ma posso dire di averne visti alcune aiutare le Ypg, rendersi utili in altri modi.
A: Occorre insistere sul punto che la guerra delle Ypg è una guera di autodifesa, sarebbe diverso se si trattasse dell’esercito di uno stato che attacca un altro paese.
Quali sono invece, le affinità o le differenze che esistono tra questa lotta e quelle in corso in Sud America? C’è attenzione, in Sud America, per la lotta del Rojava?
B: Questo conflitto non è ben mediatizzato in Sud America, la gente non sa quel che accade e quindi non viene qui in massa, o quanto meno non arrivano in così tanti come accadrebbe se se ne sapesse di più. È davvero un peccato che siamo così dipendenti dai media mainstream, è un grosso problema e tutti dovremmo fare una grossa autocritica su questo.
Ciononostante credo che le somiglianze tra questa lotta ed altre, che hanno luogo in Sud America, non manchino: penso agli zapatisti, ai mapuche in Cile. Si tratta di lotte postcoloniali che pongono un certo accento sull’identità, di cui pretendono un riconoscimento, a partire dalla lingua, dalla cultura. Un’altra cosa in comune è anche che sebbene queste persone soffrano un dominio, non propongono una separazione o una chiusura, una divisione dal resto, ma cercano soluzione a partire da una vita in comune con chi è diverso da loro, sebbene sulla base del riconoscimento di uguali diritti e del rispetto culturale e linguistico.
Una domanda a parte la meritano i compagni e le compagne turchi. Cosa pensate di loro, dopo averli conosciuti?
A: Sono compagne e compagni di diverse formazioni comuniste di diverso orientamento ideologico: Mlkp, Bög, Tikko. Hanno in comune una caratteristica che dovrebbe far riflettere noi europei: la maggior parte di questi militanti è stata tre, cinque, sette anni in prigione, e tra loro non mancano i latitanti. La Turchia non sta soltanto opprimendo i curdi, ma anche i turchi, e in particolare i compagni affrontano una repressione molto forte. Basti pensare che ancora adesso le conseguenze repressive della mobilitazione di piazza Taksim [2013, Ndr] non sono terminate.
Non ci dobbiamo opporre al governo turco, quindi, soltanto per i curdi, ma anche per i turchi, a partire dai compagni turchi. Erdogan prende qualsiasi misura contro le opposizioni in Turchia, non soltanto contro il movimento curdo. Va d’altra parte ricordato che non tutta la sinistra rivoluzionaria turca appoggia il movimento curdo.
B: Personalmente trovo i compagni turchi molto originali e militanti, sono meno dei curdi in Turchia ma stanno creando un’organizzazione forte per il futuro, e speriamo che sia un futuro prossimo. Sono molto politici, molto rivoluzionari. Qui ci sono maoisti che combattono al fianco di trotzckisti, stalinisti e marxisti-leninisti. In Europa per differenze molto minori si litiga, questi compagni invece superano in parte le loro differenze e combattono insieme in Kurdistan al fianco dei curdi, ma per quel che sappiamo esistono tra loro forme di collaborazione anche in Turchia, se si esclude il Dhkc-p, che in ogni caso sta subendo a sua volta un attacco repressivo forte [Il Dhkp-c è la formazione marxista-leninista principale in Turchia, che ha posizioni diverse dalle altre in politica internazionale, considerando il Pkk un partito nazionalista regressivo e appoggiando in Siria il regime di Bashar Al-Assad, vistto come un argine antimperialista nella regione, Ndr].
Va anche ricordato che nel Pkk stesso ci sono moltissimi militanti turchi.
I riferimenti ideologici di questi gruppi, però (marxismo-leninismo, maoismo, ecc.), ricordano un po’ un clima da 1968. Possono davvero trovare consenso sociale oggi?
B: Indubbiamente l’approccio teorico di questi gruppi è classico, tuttavia occorre anche non fermarsi alle apparenze. Sono gruppi principalmente studenteschi, e alcuni di essi hanno operato cambiamenti nel sistema interno, che è meno centralizzato e molto più democratico. Inoltre si pongono sul serio il problema di parlare alla gente, non sono chiusi in sé stessi. Un esempio è il sentimento nazionale, oggi molto forte in Turchia: si rendono conto che metterlo in discussione tutto d’un colpo non sarebbe funzionale quindi, nonostante si battano concretamente per il Kurdistan, evitano spesso di menzionare un’ostilità al concetto di nazione turca nella Turchia occidentale. È una scelta tattica.
Lo stesso atteggiamento lo si vede da parte loro anche nei confronti dell’Islam, ad esempio la mia impressione è che se qualcuno prega non lo criticano per questo, considerano la religione un fatto legittimo fino a quando non conduce all’oppressione. Si concentrano più che altro sulla critica dell’elemento patriarcale, così come del resto fa anche il Pkk.
Al loro interno ci sono anche militanti musulmani?
B: No, loro sono tutti atei perché sono comunisti, anche se talvolta vengono da famiglie musulmane. Non abbiamo mai visto praticare l’Islam nel Battaglione, mentre nelle altre unità Ypg è frequente trovare musulmani.
Che aspetto ha la guerra, adesso che non la vedete più in televisione, ma dal vivo?
A: La prima cosa che colpisce chi combatte per la prima volta è che la guerra non è combattere tutti i giorni. Da quando siamo qui abbiamo avuto soltanto quattro momenti di scontro diretto. La guerra è anzitutto organizzazione e disciplina quotidiana, e sostanziale assenza di sonno (anzitutto a causa dei turni di guardia).
B: Io non sono rimasto stupito da questa condizione, perché prima di venire qui avevo studiato un po’ la guerra da autodidatta. Se devo dire una cosa che mi ha colpito, però, è vedere come le lotte del Rojava e del Bakur siano vicine. Adesso stiamo parlando di Rojava perché siamo qui, ma il Bakur è altrettanto importante. I curdi del Bakur hanno aiutato molto quelli del Rojava all’inizio, prima che arrivassimo noi foreign fighters o anche i combardamenti aerei degli Stati Uniti. Adesso accade che molta gente dal Rojava voglia aiutare il Bakur.
Noi stessi, sebbene non ci siamo mai stati, ci sentiamo molto solidali, anche perché qui la guerra in Bakur si percepisce distintamente: basta andare a Qamishlo, per esempio, e si vedono i combattimenti di Nusaybin dall’altro lato del filo spinato che segnala il confine turco.
A: La gente pensa che le due guerre curde, in Turchia e in Siria, siano chissà quanto distanti perché in due “paesi” diversi, ma in realtà quando sei in Rojava ti trovi talvolta a dieci metri, letteralmente, dal Bakur: c’è un confine in mezzo, certo, ma è pur sempre Kurdistan.
A proposito di stati, cosa pensate del ruolo degli Stati Uniti in questa guerra?
A: Dobbiamo essere onesti, hanno aiutato non poco e prendere villaggi e città negli ultimi mesi, questo non lo si può negare. Tuttavia spaventa l’idea di cosa gli Stati Uniti possano chiedere al Kurdistan dopo la guerra, se supporteranno il nuovo Rojava o magari, addirittura, per qualche motivo cercheranno una scusa per attaccarlo. Non ci possiamo fidare, e del resto i curdi hanno messo a punto una loro linea politica, non sono affatto in ginocchio rispetto agli Stati Uniti.
Un esempio è proprio l’attuale situazione, in cui gli Usa spingono perché le Ypg vadano alla conquista di Raqqa, che avrebbe forti risvolti propagandistici e non provocherebbe attriti diretti con la Turchia, mentre i curdi insistono che prima viene Afrin, ossia la riunificazione politica del Rojava. Io mi auguro che non sorgano problemi con gli Usa, in futuro, a causa delle divergenze che esitono tra gli scopi dei curdi e quelli degli Stati Uniti, e mi auguro anche che i curdi mantengano sempre ben ferma la giusta posizione attuale di assoluta non suddistanza nei confronti degli Usa.
Dicevate che una differenza tra la vostra unità militare e le altre è la gestione degli spazi e dei rapporti tra uomini e donne. Perchè?
A: Secondo me la divisione abbastanza rigida che le Ypj hanno nei confronti delle Ypg ha tanto una componente culturale quanto una politica. Da un lato c’è un elemento molto positivo che rafforza e dà potere alle donne, che è la loro autonomia: gli uomini nelle Ypg hanno palesemente “paura” delle donne, anche del loro giudizio. Una volta, ad esempio, quando ero in un’altra unità delle Ypg (prima di entrare nel battaglione) le Ypj hanno accettato l’invito a pranzo delle Ypg, e allora si è creata una situazione molto buffa di preoccupazione da parte degli uomini, che continuavano a istruirsi a vicenda su quali comportamenti evitare per non ricevere l’accusa di perpetrare atteggiamenti patriarcali.
In questo senso la separazione produce anche una sorta di quieto vivere per gli uomini che, non essendo insieme alle donne, sono in qualche modo esonerati da tutta una serie di accorgimenti che permetterebbero loro di superare la cultura patriarcale che è ancora dentro di noi. Quell’episodio ha segnalato quanto la condizione di autonomia delle donne avesse anche un risvolto “comodo” per le Ypg maschili. Si tratta però di un’impressione personale, che come tale dev’essere presa: magari mi sbaglio.
B: Per me esiste palesemente anche un elemento culturale conservatore nella dimensione separata che vivono le Ypj rispetto alle Ypg, siamo comunque in una società molto conservatrice qui in Rojava, dove non viene ben visto che delle donne vivano assieme a degli uomini, collettivamente. Per questa ragione le compagne marxiste turche, ad esempio, hanno talvolta espresso delle critiche a questo fenomeno nelle discussioni che abbiamo avuto nella nostra unità su questi argomenti. Questo non ha impedito loro di criticare atteggiamenti virilisti da parte di compagni, quando essi si sono presentati.
Che cosa è stato criticato, in particolare?
A: In particolare ricordo che una volta è stato criticato ilo comportamento di un compagno che, con il tono arrogante della voce, ha sostanzialmente “zittito” in assemblea una compagna. Tuttavia, a parte questo esempio, che potrebbe essere simile a ciò che accade in Europa, occorre tenere presente che qui in medio oriente le usanze sociali sono diverse e così i significati assegnati ai comportamenti.
Ad esempio, qui comportamenti patriarcali sono considerati tenere in mano una specie di rosario e passare le perline tra le dita, o tenere le gambe accavallate. Può sembrare assurdo, invece ciò è dovuto al fatto che il tipico atteggiamento “maschile” dell’uomo tronfio del suo potere clanico, è tradizionalmente in Kurdistan stare seduto con le gambe accavallate e muovere tra le dita questa specie di rosario, che è una sorta di simbolo del potere maschile.
B: Questo naturalmente produce equivoci. Essendo caratteristico del luogo, questo gesto del piccolo rosario a me piaceva, quindi inizialmente mi rilassavo nelle ore vuote con questa collanina in mano. Tuttavia ho dovuto smettere quando mi hanno detto che le compagne di sarebbero arrabbiate se mi avessero visto: un combattente comunista o delle Ypg non può avere comportamenti del genere. Come si può notare molte cose sono ben diverse rispetto all’occidente.
Un altro elemento che concerne le relazioni di genere è la sessualità. Qual è la vostra impressione generale, e quella particolare riguardo all’Ifb?
A: È difficile dire che cosa accada da questo punto di vista nelle Ypg. Abbiamo sentito delle storie riguardo a relazioni sentimentali tra Ypj e Ypg, ma non abbiamo mai visto accadere niente del genere di persona. Nell’Ifb molto dipende dall’organizzazione politica di cui si è parte (sempre che si faccia parte di un’organizzazione, perché, come detto, non è necessario). Ci sono formazioni comuniste turche in cui è amesso avere relazioni amorose nella propria vita in generale [Nel Pkk non è ammesso, Ndr], sebbene i quadri che decidono di dedicarsi maggiormente alla causa possano soltanto avere relazioni informali, e non possano sposarsi né avere dei figli.
Tuttavia questo non vale certo sul campo di battaglia o durante la vita militare: nell’ambito militare è proibito in qualsiasi organizzazione, anche nell’Ifb in generale, e anche nelle Ypg e Ypj. Non è difficile capire questo aspetto, a questo livello c’è ben poco di “culturale”: questo genere di fatti al fronte potrebbero creare situazioni molto difficili da gestire, che in una situazione di guerra non ci si può permettere.
Se doveste dire che cosa vi ha colpito maggiormente del Kurdistan, cosa direste?
B: In Rojava e in Siria la gente vive davvero in comune nelle famiglie e nei quartieri. Non devi telefonare a qualcuno per andare a bere il tè a casa sua, vai e bevi. La famiglia qui non è la famiglia nucleare europea, è una famiglia allargata.
A: Io sono rimasto scioccato dall’ospitalità di questo popolo, prima non avevo mai vissuto niente del genere. Quando vai nelle case e devi dormire non riesci neanche ad impedire che ti lavino i calzini, te li strappano a forza!
B: Hanno il senso della vita in comune, pensano a te; quando sei ospite, tengono sempre un occhio alla tua tazza di tè, per riempirla appena si svuota. Come combattente internazionale, poi, percepisci di essere considerato un eroe: posso dire che è meraviglioso.
A: Loro continuano a dire che la rivoluzione curda non è per il Kurdistan, ma diventerà mondiale. I quadri dell’organizzazione sono tutt’altro che nazionalisti, ti dicono: “Stai combattendo per il Kurdistan, quindi sei curdo, sei mio figlio”. Hanno questo proverbio secondo cui il Kurdistan è la “terra dei martiri”, ossia dove cade il sangue del martire, lì c’è il Kurdistan. Questo concetto l’ho sentito ripetere diverse volte riguardo a Rustem, l’ultimo combattente europeo caduto, nella città di Shaddadi. È un’idea che non è fatta propria soltanto dai quadri, ma da tutta la popolazione curda.
B: Durante questi mesi di guerra ho avuto modo di conoscere compagni da tanti paesi, ad esempio turcomanni e ceceni, e per loro mi sembra che l’identità sia maggiormente definita, anche più importante. L’identità curda mi sembra più “elastica”.
Per concludere, quale messaggio vorreste mandare al mondo dalla Siria?
A: Il movimento rivoluzionario occidentale deve smettere di litigare al suo interno e deve dedicare le proprie energie a trovare una soluzione per lavorare insieme. Deve anche smettere di essere sempre contro tutto, noi stessi siamo stati criticati per essere venuti qui… poi siamo anticapitalisti, antisessisti, antifascisti, ma qual è la nostra alternativa pratica? Dobbiamo cominciare a costruire questa alternativa, in teoria certo, ma soprattutto in pratica. Dobbiamo saper prendere ispirazione dal Rojava, per questo spero che anche altre compagne e compagni si uniscano a questa lotta e si mettano al più presto, e in tanti, in viaggio per la Siria.
Dall’inviato di Infoaut e Radio Onda d’Urto in Rojava, Siria
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