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Vigilia di elezioni in Turchia

Una proposta di auto-determinazione dei popoli che non è solo mero progetto: in risposta alla rottura del processo di pace e alla ripresa delle scorribande della polizia contro i kurdi dell’inizio dell’estate, da ormai diversi mesi decine di quartieri in diverse città del Bakur hanno dichiarato l’auto-governo e sperimentano forme di organizzazione dal basso della vita comune protette dagli abitanti stessi con kalashnikov e barricate dai continui attacchi delle forze speciali. Ispirato dalle dense esperienze di nuove forme di organizzazione sociale che si sono sviluppate in Rojava, la parte del Kurdistan ufficialmente nel Nord della Siria, l’auto-governo dei quartieri si configura come autonomia democratica “realmente esistente”. Traslando un famoso slogan, da queste parti democrazia è (anche) il fucile in spalla al popolo kurdo.

Nei mesi scorsi la repressione del governo contro queste esperienze è stata feroce ed è culminata nel massacro di Cizre, storico baluardo del movimento di liberazione kurdo, dove durante gli otto giorni di coprifuoco di metà settembre l’esercito ha fatto almeno 21 morti nei quartieri auto-difesi: “Abbiamo dovuto tenere il corpo di una bambina nel frigo per quattro giorni visto che i cecchini sparavano a chiunque osasse uscire in strada. Se non ci fosse stata l’auto-difesa i morti sarebbero stati molto di più, i soldati sono venuti per uccidere” ci racconta una anziana signora che abita a Nur, uno dei quartieri autonomi della cittadina. Una carneficina che non sembra aver avuto l’effetto sperato, ossia intimidire la popolazione per costringerla a lasciare i propri luoghi di residenza impedendogli di fatto di votare: “Alcuni sono effettivamente andati via ma la gente alla fine è rimasta, il popolo kurdo non ha paura” ci dice un esponente dell’HDP locale.

Anche i sanguinosi attentati suicidi di Suruc e di Ankara di quest’estate sono stati sfruttati dall’AKP per presentare come necessaria la presenza di un partito unico al governo per riuscire a far tornare ordine e stabilità nel paese. Una retorica orwelliana visto che è stato proprio Erdogan a rompere il processo di pace col movimento kurdo che era cominciato nel 2013 e a moltiplicare in queste ultime settimane gli attacchi contro la popolazione civile nonostante il cessate fuoco unilaterale dichiarato dal PKK.  “Vogliamo che Ocalan sia liberato e che il processo di pace possa riprendere. Erdogan vorrebbe scatenare una guerra civile, noi facciamo di tutto per evitarla. Vogliamo solo che ci lascino vivere liberi” ci dice un abitante del quartiere auto-difeso di Silvan.

Dove invece l’auto-difesa cessa ricominciano le operazioni di polizia contro gli esponenti del movimento di liberazione. A Diyarbakir, principale città del Bakur, nella notte di domenica scorsa la polizia ha approfittato delle barricate smontate per portare a termine un raid nel cuore della città vecchia di Suriçi, arrestare una ventina di persone e bruciare il tendone comunitario dove si condividevano i pasti. Per salvare almeno le apparenze il governo, accusato in questi mesi da più parti di collusione se non collaborazione con lo Stato Islamico, negli ultimi giorni è stato molto attento ad alternare al colpo al cerchio uno alla botte. E così, all’alba dello stesso giorno cominciava un’operazione contro una cellula di Daesh che ha fatto nove morti di cui due agenti di polizia.

Una campagna elettorale, insomma, tutta incentrata sulla costruzione del nemico interno, in una dinamica che sembra voler fagocitare progressivamente tutto ciò che non è integrabile nel progetto autocratico dell’AKP. Solo pochi giorni fa la polizia occupava manu militari e commissariava le emittenti del gruppo Koza Ipek, vicine all’imam Fethullah Gulen, alleato di Erdogan fino al 2013 quando una serie di inchieste per corruzione lanciate da procuratori “gullenisti” hanno toccato alcuni membri della famiglia presidenziale portando alla rottura del fronte sunnita. In questo senso l’attacco all’influente gruppo di potere legato all’Imam sembra confermare l’insopportabilità per il governo di una qualsiasi opposizione come anche la volontà di epurare le strutture statali dagli ultimi elementi non legati direttamente all’AKP, vista la significativa influenza dei “gullenisti” in magistratura, esercito e polizia.

In Kurdistan si spera che ormai il progetto autoritario del Sultano sia evidente anche al di fuori della regione anche se gli ultimi sondaggi sembrano restituire un quadro elettorale sostanzialmente immutato rispetto alle elezioni del giugno scorso, con l’AKP in testa ma senza abbastanza voti per formare un governo a partito unico e portare così a termine la riforma costituzionale fortemente accentratrice voluta dal presidente. L’Hdp, in una conferenza stampa tenuta oggi nella sede del Congresso Popolare di Dyarbakir, ha affermato per bocca dei suoi candidati che non è disposto ad alcun accordo con l’Akp qualunque sarà il risultato, anche considerata l’attacco frontale che il movimento kurdo ha subito in questi mesi. “Siamo pronti a sostenere in parlamento qualsiasi politica volta a superare l’attuale situazione di stallo”, aggiungono però. Se è facile prevedere il responso delle urne, la vera incognita sarà la reazione del governo a un risultato elettorale identico e considerato inaccettabile qualche mese fa. Intanto, per le strade di Suriçi passano in serata auto che suonano il clacson incitando gli elettori a portare la sinistra verso l’affermazione negli equilibri dello stato. Qualunque cosa accadrà, saranno le strade attraversate da quelle stesse auto, da domani sera, a subirne le conseguenze.

Diyarbakir, Kurdistan del Nord, 31 Ottobre 2015

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