Bolivia, la vittoria degli indigeni
Impedire la costruzione di quella strada era il principale obiettivo della protesta. Clamorosa protesta: oltre 1.500 persone – tra cui donne e uomini, bambini, adolescenti, anziani – avevano camminato ben 64 giorni dalla cittadina di Trinidad, nel bacino amazzonico, su fino a La Paz, sulle alture andine, per difendere quella che chiamano la loro «casa grande» – il Tipnis infatti è abitato da oltre 15mila persone di diverse etnie native, yuracaré, moxeña e chimán. A La Paz si erano accampati davanti al palazzo del governo, piccole tende nel freddo (in questo momento la temperatura è appena pochi gradi sullo zero), e già questo era il segno di una rottura: la protesta a oltranza di comunità indigene contro il governo del primo presidente indigeno mai eletto in un paese andino. Infine sabato scorso, dopo mesi di conflitto, Morales aveva invitato i leader indigeni a sedersi a un tavolo, e infine è arrivato l’accordo con «i popoli indigeni dell’oriente». È un accordo in 16 punti, dove si tratta di risorse naturali, di difesa della terra dalle occupazioni abusive di coloni, di misure contro la povertà in quelle regioni amazzoniche – la legge approvata lunedì ne è la diretta conseguenza. Morales, che ha condotto personalmente il dialogo, ha chiesto scusa per la repressione di cui sono stati vittima i dimostranti durante la marcia (il 25 settembre la marcia era stata caricata dalla polizia, nella cittadina di Yucumo, e 70 dimostranti erano rimasti gravemente feriti): non è stato lui a mandare la polizia a caricarli, ha detto, e farà luce su chi ha dato l’ordine di attaccare. «Conosco il Parco Isiboro Sécure, so che c’è molta povertà laggiù», ha commentato lo stesso presidente Morales: «Sappiamo che non ci siamo ancora arrivati», ha ammesso. Ha anche spiegato, però, che quella strada era stata progettata non per fare affari ma perché diverse organizzazioni sociali la chiedevano. Dunque la Confederazione dei popoli dell’oriente boliviano riparte soddisfatta del risultato (e dell’ascolto) ottenuto.
Certo: ora il presidente Morales dovrà spiegare la decisione del suo governo ai produttori di coca della regione amazzonica (che formalmente presiede ancora). Gli dovrà spiegare perché non si costruirà la strada che loro chiedevano, anzi considerano cruciale per lo sviluppo economico della regione – sarebbe stato il segmento boliviano di una nuova via transamazzonica, da Manaus in Brasile fino alla costa del Pacifico. Gli dovrà far ingoiare le nuove norme che mirano a impedire le invasioni di terre – coloni e piantatori che invadono terre demaniali o delle riserve indigene – e spiegargli che le occupazioni abusive saranno sgomberate. Insomma, dovrà affrontare una contraddizione profonda, e annosa, tra popoli indigeni e «coloni», a volte povera gente mandata a strappare campicelli alla foresta, a volte imprenditori più agguerriti, tutti a «mangiare» terre tolte alla foresta e alle popolazioni indigene. In quella zona sulle pendici del bacino amazzonico (due o 300 metri di altezza) la gran parte dei terreni occupati è stato trasformato in piantagioni di coca. Così ora le sei federazioni che riuniscono circa 30mila produttori di coca della regione tropicale boliviana annunciano proteste e mobilitazioni per difendere la strada a cui tengono tanto.
Paola Desai per Il Manifesto
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