Chiomonte: tutti blackbloc… decine di migliaia di blackbloc!
Siamo arrivati a Chiomonte, con un gruppo di amici torinesi, verso le 9.30 del mattino e la piccola borgata valsusina era già gremita di gente. Avendo aspettato altre persone che arrivavano da Torino sul treno seguente, ci siamo ritrovati quasi in coda della manifestazione. Appena usciti da Chiomonte abbiamo visto che i primi del corteo erano già arrivati al principale punto di raduno: la stazione idroelettrica di Chiomonte. Un corteo lungo 10 chilometri (Chiomote – Exilles – Centrale idroelettrica). Rimanendo su una media bassa di 4 persone/metro. Stiamo parlando di un minimo di 40.000 persone.
Quarantamila persone giunte da tutta l’Italia, ma principalmente dalla valle. Per dire no alla TAV, no allo spreco, no alla gestione mafiosa dei beni pubblici, no alla cementificazione infinita, no alle bugie, no alla violenza dello stato… 40.000 no alla prepotenza del capitale e delle mafie.
L’invito a venire in Valsusa, da parte del movimento No-Tav, non era per fare una passeggiata domenicale in mezzo al verde. L’invito era chiaro: “lo stato ci ha cacciati via con uso illegale della forza dalla Maddalena, aiutateci a riconquistarla. (video perino). Chi è venuto in valle a manifestare sapeva cosa faceva ed era venuto per tentare di riconquistare le postazioni occupate.
Quasi tutti i manifestanti speravano di arrivare alle recinzioni, sfondarle e poter rientrare nel campo e nel luogo del presidio, sgomberati con uso di una forza spropositata pochi giorni prima.
Fatto sta che il compito era arduo. C’era da camminare una media di 10 chilometri sotto il sole, su una strada abbastanza piatta per il percorso morbido (Exilles – Centrale) o con un dislivello (in salita poi in discesa) di circa 400 metri per il percorso duro (Exilles – Ramats – Maddalena). Il corteo si è spezzato in due perché c’era bisogno di gente su tutti i fronti.
Io ho scelto il percorso duro, via Ramats, quello che la stampa agli ordini ha chiamato “percorso dei cattivi”. Accanto a me sul percorso dei cattivi ho visto donne, uomini, anziani, giovani, geometri, architetti, contadini, medici, impiegati di banca e delle assicurazioni, maestre, musicisti, disoccupati, pensionati, precari, cassintegrati…
Dall’alto, sul “percorso dei buoni” ho visto donne, uomini, anziani, giovani, geometri, architetti, contadini, medici, impiegati di banca, impiagati delle assicurazioni, maestre, musicisti, disoccupati, pensionati, precari, cassintegrati… e anzianissimi e bambini. Forse erano questi ultimi due le uniche differenze tra i due spezzoni.
Ma mano a mano che ci si avvicinava verso le recinzioni delle zone militarizzate si creava una nuova discriminante: resistenza allo sforzo (molti si erano fermati, per la fatica) caschi e maschere anti-gas. Dalla parte della Maddalena non sono nemmeno riuscito ad avvistare le recinzioni talmente era fitta la nebbia di gas velenosi che me ne separava. In quello inferno ci entrava solo chi è venuto attrezzato.
Attrezzatissimi erano molti giovani e meno giovani, della valle e di fuori. Ho visto personalmente delle “massaie” valsusine spiegare ad alcuni giovani tutto sull’uso della maschera, della bandana, dell’acqua e limone o ancora meglio acqua e Maalox, perché i gas bruciavano ogni pezzo di pelle non coperta. Erano quelle le discriminanti che hanno fatto che ad arrivare ai recinti (e a sfondarli qualche volta) fossero così in pochi. Non erano i più cattivi, erano i più resistenti e i più attrezzati.
Resistenti e attrezzati a far fronte ad una violenza di uno stato degna dell’Egitto di Mubarak, della Tunisia di Benali. Resistenti ed attrezzati per imporre la volontà popolare ad uno stato che non vuole dialogare e preferisce il linguaggio dei manganelli e dei veleni chimici e mediatici.
Nei boschi di Ramats, io c’ero e volevo aiutare a sfondare quella maledetta recinzione. Eravamo in tanti seduti a guardare la nebbia velenosa e a rammaricarci di non esserci attrezzati per affrontarla. Quelli giù nella val Clarea avevano tutta la nostra solidarietà.
Il movimento No Tav è un movimento molto vasto e vario nella sua composizione. Ci sono movimenti strutturati e cani sciolti, comunisti, anarchici, cattolici, ambientalisti, grillini e tanti senza appartenenza precisa. Ci sono valsusini di nascita e altri di adozione. Ci sono nonviolenti preparati, nonviolenti solo per principio, nonviolenti per sentito dire, altre persone che non comincerebbero mai con la violenza ma che non lascerebbero un poliziotto bastonarli senza reagire. Ci sono anche persone che ce l’hanno a morte con la “sbiraglia”, con lo stato e non vedono l’ora di cominciare a fare a botte. È vero che questi ultimi come dicono i media di regime sono una minoranza. Ma quello che non dicono i giornalisti al guinzaglio è che la violenza di questa minoranza è diventata protagonista soltanto dove lo stato ha imposto il linguaggio della violenza. L’Arcivescovo Oscar Romero lo diceva tanti anni fa in Salvador, pagandolo con la vita: la contro-violenza rivoluzionaria non è una bella cosa, ma l’unico modo di disarmarla è di far cessare la violenza dello stato (quella diretta e quella strutturale).
La stampa, il giorno dopo “la battaglia”, e anche durante, ha dissertato a lungo sul fatto che la causa della Valsusa potrebbe anche essere comprensibile se non fosse ostaggio delle frangi violenti. Hanno raccontato una giornata infernale in cui un pugno di Black bloc, accorsi da tutta Europa che parlavano inglese, hanno guastato la marcia pacifica dei bravi cittadini e delle mamme.
Hanno pubblicato un vero e proprio bollettino di guerra sul numero di poliziotti feriti. Un numero che fluttuava secondo interpretazione e zelo di chi ne parlava. Dai 100-150 dei più teneri, ai 200 della scatenata “La Stampa di Torino”, ai 230 di Aldo Forbici su radio Rai uno (beccato per caso mentre facevo zapping in macchina), ai 300 di Emilio Fede (beccato altrettanto per caso mentre rientravo a casa). Sui manifestanti feriti, spesso, nemmeno una parola. Se la saranno cercata. Così come me la sarei cercata anche io se quel cono spartitraffico che un poliziotto ci ha lanciato dal ponte dell’autostrada (alto almeno 100 metri) mentre camminavamo sotto mi avesse spaccato la testa.
Nessuno ci spiega però: perché quando non succede nulla e che il movimento fa il “buono” viene ignorato e maltrattato lo stesso?
Per fortuna che c’è la rete che riesce a fare contro peso contro il tiro di sbarramento di tutta la stampa maggioritaria. Meno male che quello che è successo si può vedere, ascoltare, leggere lo stesso. Scritto, fotografato, filmato da gente che non ha niente da guadagnare nella storia. Da gente che non riceve lo stipendio dalle aziende che vogliono spartirsi il malloppo. Gente che lo fa solo perché non accetta le verità preconfezionate e i consensi imposti con la forza e con il danaro sporco.
Se voi andate a leggere le testimonianze, a vedere i video, a seguire il dibattito vero vi accorgerete che non c’è un movimento No Tav buono e uno cattivo. Vedrete che in realtà lì eravamo tutti cattivi. Perché volevamo tutti riprenderci la legalità e la volontà popolare. C’erano solo dei cattivi più accaniti, meglio preparati, più resistenti e più attrezzati. E poi dei cattivi ingenui, sfiatati, troppo vecchi, troppo impauriti, troppo grassi o troppo magri, e soprattutto senza preparazione né attrezzatura adeguata.
Insomma, con o senza casco, con o senza maschera, in fin dei conti eravamo tutti Black-bloc in quella storia: decine di migliaia di Black-bloc. Decine di migliaia di Black-bloc che hanno capito una cosa: la prossima volta che oseremo dire no al diktat del capitale, come minimo dovremo investire in una buona maschera anti-gas.
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