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I soprusi in Val Susa sono la violenza di chi ci teme

“Le verità della polizia sono le verità di oggi” (Jacques Prévert)

Otto compagni del movimento No Tav sono agli arresti: Marcello, Ennio, Matthias, Luke, Piero e Alberto si aggiungono a Frank e al Brescia, già in prigione da diversi giorni per una precedente manifestazione. Un pensiero particolare lo mando a Ennio, mio amico personale, cui, a tre giorni dal trasferimento in carcere, erano ancora negate le cure mediche per le ferite riportate durante l’arresto. Sono gli ennesimi ostaggi di un sistema repressivo oliato, che cerca di affinare in Val Susa tecniche pronte a dispiegarsi su tutto il paese qualora anche in Italia iniziassero le manifestazioni e i tumulti che già vediamo altrove, in paesi vicini e lontani. Un sistema in cui informazione, polizia e magistratura lavorano a stretto contatto per ottenere il discredito di chi si ribella, la demonizzazione di chi resiste, la mistificazione di ogni episodio legato al dissenso. Dopo la marcia verso le reti del 19 luglio l’intero sistema mediatico si è messo in moto: i No Tav si sarebbero trasformati da movimento popolare in pura organizzazione di guerriglia, e la lotta in valle è raffigurata come condotta da “elementi esterni”, gente “venuta da fuori”. Il dissidente, nelle società democratiche in crisi, è nemico pubblico: senza volto e senza nome, non appena varca la soglia dell’opposizione aperta e della resistenza attiva ai soprusi, diviene un folle assetato di sangue, terrorista anonimo, elemento irrazionale e desideroso di fare il male. La retorica contro i No Tav diviene sempre più simile a quella usata contro i resistenti dei teatri di guerra, occupati dalle truppe di qualche potenza straniera.

Proprio la demonizzazione aperta del movimento e delle sue mobilitazioni, tuttavia, è prova della paura che un potere costituito sempre più debole prova di fronte alle manifestazioni di unità e resistenza da parte dei soggetti sociali. Ci vogliono dipingere con i volti perennemente coperti perché sanno che i nostri volti sono di norma molto più scoperti dei loro, e che la battaglia della valle è una lotta pericolosamente alla luce del sole. Non è un mistero che, in tutta la storia repubblicana, la magistratura abbia considerato degni di massima attenzione, e quindi da combattere senza esclusione di colpi, non tanto i gesti isolati in nome di un’ideologia, ma le lotte dove un’imposta radicalità dello scontro è accompagnata da una partecipazione e una coscienza diffuse. Questo è ciò che temono: la caduta rapida di tanti tabù politici in un’area considerevole e popolosa, che è diventata negli anni luogo di sperimentazione di nuove relazioni sociali, tutte rivolte in avanti, verso la trasformazione. Ciò che il governo ha mostrato di non poter accettare nei giorni scorsi, non a caso, è l’accostamento tra No Tav e partigiani: questo perché il partigiano è oggi l’unica figura storica di ribelle verso cui è ammesso (anche se in modo sempre più controverso) un giudizio positivo; ed essa può rappresentare l’allusione a un’idea dove il “nemico pubblico” è o può essere un amico: qualcuno che, insieme a tanti altri, si mette in marcia verso una liberazione.

Un funzionario della questura di Torino ha dichiarato qualche giorno fa alla stampa che l’unica strategia possibile per sconfiggere il movimento è dividerlo. Ci avevano provato prima i media, con le menzogne sulla resistenza all’invasione militare del 2011; poi Giancarlo Caselli, con i suoi arresti nel 2012; e non ci sono riusciti. Ora tornano all’attacco, con lo stesso obiettivo, e si condannano anche questa volta all’insuccesso. La questura sostiene che gli scontri di un anno fa erano legati a una resistenza popolare, ma non quelli di quest’anno; eppure è quello che diceva già l’estate scorsa, riguardo a quelli dell’anno prima. I giornalisti più fanatici parlano di patti militari tra gruppi estremisti, inventandosi date e sigle, ma si gettano a capofitto nel ridicolo; loro unica fonte è d’altronde sempre la stessa, quella delle volpi in divisa (o in borghese) che scrutano con rinomato e riconosciuto acume ciò che accade sotto i loro occhi. 

I magistrati non fanno mancare il loro contributo, rivendicando un ruolo embedded, rigorosamente di parte, in questa vicenda, anche a costo di diventare macchiette, improbabili showman che giocano ai soldatini con la pelle degli altri, posando per la stampa all’interno del cantiere durante gli scontri (a detta loro per “vedere di persona” cosa accade durante una manifestazione: non si fidano più delle relazioni di polizia?). Senza timore del ridicolo, i giornalisti li ricambiano per lo scoop definendo questo comportamento “coraggioso”; i poliziotti nel frattempo caricano e inseguono in mezzo ai boschi, sparando lacrimogeni in testa alle persone (alcune granate erano vuote, a testimonianza che erano usate esclusivamente come proiettili), si accaniscono su giovani e anziani a terra anche in prossimità di dirupi, infieriscono sui prigionieri. Soddisfatti di tutto ciò, i pm Padalino e Rinaudo lasciano la torretta di controllo, e al palazzo di “giustizia” il giorno dopo si spiega che tali situazioni non possono essere giudicate “in punta di diritto”… Ammazza: pensate se gli avessero dato in mano un manganello!

altLe forze dell’ordine hanno agito, evidentemente, nell’arrogante consapevolezza di una totale impunità: lo spalleggiamento totale della procura e della stampa ha loro dato la certezza di avere carta bianca, a dodici anni esatti dalle mattanze di Genova e dalla morte di Carlo Giuliani. Lo dimostra il grave bilancio di feriti (63 nel movimento), gli arresti premeditati, ed anche l’episodio denunciato da una ragazza di Pisa, Marta, che ha detto di aver subito molestie sessuali dai poliziotti che l’hanno arrestata, ferita e condotta dentro il cantiere-fortino senza permetterle di accedere a cure mediche per ben quattro ore. Il sito del quotidiano Repubblica, scandalosamente, ha inizialmente censurato il video della sua denuncia, tagliando tanto la parte in cui fa riferimento alle molestie, tanto quella in cui denuncia il ritardo delle cure. Sommersi dalle proteste, hanno postato la versione integrale. D’altra parte, per un giornale che da sempre sfrutta l’immagine della donna al solo scopo di accumulare denaro – bombardando il lettore o l’internauta di spot dove il corpo femminile è mero decoro per brand commerciali – una ragazza forte soltanto della sua scelta politica e del suo coraggio non può significare granché. E dire che quando la “dignità della donna” è utile a De Benedetti per fare la sua personale guerra d’interessi a Berlusconi, essa diventa la principale preoccupazione (sia pure in modo distorto e superficiale) di questo imperdibile quotidiano.

altÈ normale: come avviene nei teatri esteri delle proteste, anche in Italia i media nazionali si mobilitano contro il nemico interno, selezionano e censurano, esagerano o minimizzano, creano gerarchie implicite o esplicite di valori all’unico scopo di prevenire comportamenti o pensieri che possano contemplare una critica all’ordine costituito; intanto, accumulano denaro grazie al consumo spettacolare di feticci e modelli preconfezionati. La vicenda di una compagna vittima di abusi non può non solleticare i peggiori pruriti maschilisti di politici e giornalisti, tutti rigorosamente uomini. Meo Ponte, ancora su Repubblica, si sente in diritto di smentire Marta, scrivendo, a commento delle sue dichiarazioni, che “la realtà è diversa” (senza peraltro spiegare come e perché); e il parlamentare del Pd Stefano Esposito gli fa eco su twitter, dicendo che “si è inventata” le molestie, che esse sarebbero una “bugia”. Come queste persone possano sapere cosa è accaduto in quel bosco non è dato conoscere, ma appare chiaro che una donna che denuncia una molestia è meno credibile se è una No Tav, e se ad essere accusati sono dei poliziotti. Senza alcuna sorpresa, il sindacato di polizia si spinge ad annunciare per Marta una querela per diffamazione, come monito per altre o altri che volessero raccontare verità scomode sulle forze dell’ordine.

altNessuna di queste minacce, calunnie e offese sortirà effetto alcuno, tuttavia, così come le loro violenze, e la detenzione e le ferite non piegheranno la determinazione dei compagni arrestati, cui va il nostro pensiero, nel momento in cui la valle ne pretende la liberazione (come avviene anche in altre città) con manifestazioni e fiaccolate. Non abbiamo mai pensato che la lotta contro il Tav sarebbe stata, in senso letterale, “una passeggiata”; né pensiamo che la lotta generale contro ciò che il progetto del Tav rappresenta su un solo territorio, quando si esprimesse in tutto il paese, sarebbe un pranzo di gala. E non abbiamo mai detto che ci piace la violenza, ma neanche abbiamo chiesto a militari e poliziotti di frapporsi tra i valligiani e il cantiere, sulla strada che porta alle reti della vergogna, là dove il futuro di tutti noi viene distrutto, e la nostra salute messa in pericolo. Là dove soltanto due anni fa sorgevano meravigliosi castagneti, e tutti potevano camminare liberamente. Là dove vogliamo tornare ancora e ancora, assieme agli otto compagni che sono ora privati della libertà.

Libertà per tutti i No Tav

Fuori le truppe dalla Val di Susa

da Quiete o Tempesta

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