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Il cane a sei zampe e l’abitudine alla museruola

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Vietato parlare di Eni: «Ora dateci 100mila euro entro dieci giorni»

In risposta a un articolo dedicato al procuratore generale di Milano Francesca Nanni, pubblicato su questo giornale martedì 27 luglio, Eni ha deciso di chiarire la sua posizione in una lettera inviata al direttore nella quale si dissentiva per un breve passaggio dell’articolo che toccava la società del Cane a sei zampe, sul quale si tornerà in seguito. Il giornale, come sempre in questi casi, ha pubblicato la lettera di doglianze dell’azienda e provveduto a rispondere nel merito sui temi sollevati, puntualizzando a sua volta le questioni che riteneva importanti. Normale dialettica tra oggetto e soggetto dell’attività giornalistica.

Parallelamente alla richiesta di uno spazio sul giornale per ribattere all’articolo, però, la società ha inviato una lettera di diffida al quotidiano attraverso lo studio di avvocati Dentons, che assiste la società per una serie di questioni legali. La missiva, piuttosto stringata, dopo aver affermato che Eni sarebbe vittima da tempo di una campagna stampa diffamatoria di Domani si chiudeva con una richiesta a dir poco inusuale, per usare un eufemismo. Ovvero quella pagare 100mila euro a Eni «entro dieci giorni dal ricevimento della lettera» a titolo di risarcimento del danno che avrebbe patito. Un atteggiamento decisamente pragmatico e sbrigativo. Anche perché, senza pagamento immediato, il colosso petrolifero aggiunge – come ha ovviamente diritto – che adirà a vie legali.

La richiesta dei 100mila euro da evadere con bonifico nel giro di una settimana e poco più, non avrebbe però esaurito le pretese dell’azienda, dicono gli avvocati nella diffida. Perché Eni si è riservata comunque il diritto di un’ulteriore quantificazione dei danni subiti. In altre parole, sùbito un acconto sulla fiducia e il resto a saldo, eventualmente, dopo una mediazione o chissà quale altro rimedio. Anche perché, nella fretta di farsi sentire, l’Eni in questa missiva non ha speso troppe parole per descrivere le prove della presunta campagna, limitandosi a riportate qualche titolo di articolo «esemplificativo».

Ma qual è la parte dell’articolo che l’azienda di stato non ha digerito? Dopo aver dato atto che gli imputati di quel processo – tra cui l’attuale amministratore delegato Claudio Descalzi – sono stati assolti per quei fatti abbiamo scritto che il tribunale nelle sue motivazioni «riconosce la possibilità di una tangente ma punta il dito contro i pm che sarebbero stati incapaci di portare le prove piene per la condanna».

La società ha contestato che non si è dato atto nell’articolo del fatto che l’assoluzione è stata data «perché il fatto non sussiste», come ha stabilito il dispositivo sintetico di quella sentenza. Formula specifica già usata tante volte nei nostri articoli sulla vicenda. Leggendo le motivazioni della sentenza, però, è un fatto che per i giudici il difetto dei pubblici ministeri è consistito anche nel non aver raggiunto la prova «certa» e «affidabile» dell’esistenza dell’accordo corruttivo, ma essersi fermati agli indizi.

I tre giudici del collegio presieduto dal giudice Marco Tremolada hanno ricordato ai pm, infatti, che l’accusa che non può essere solo «indiziaria» anche nei casi di corruzione internazionale, nei quali è palesemente più complicata la prova che va cercata fuori dai confini italiani. Sono gli stessi giudici, però, che dopo aver bacchettato i pm tracciano scenari alternativi di ricostruzione sulla base degli elementi emersi in un paragrafo che si intitola Altri possibili corruttori. Ed è lo stesso collegio che spiega che «anche volendo ritenere che 466 milioni in contanti siano effettivamente pervenuti ai pubblici ufficiali così come contestato, appare evidente che si è trattato non di spontanea adesione ad un accordo corruttivo, bensì di una indebita dazione, frutto delle ingiuste minacce rivolte dal pubblico ufficiale Adoke al principale azionista di Malabu, Dan Etete».

In quella sentenza vi sono passaggi che, a una lettura storica dei fatti, possono lasciare domande ancora inevase su quella stagione nigeriana dell’Eni (e della sodale anglo olandese Shell). Dubbi che devono poter trovare legittimamente spazio sulla stampa, tanto più che Eni è una società a controllo pubblico.

Non solo: la vicenda Eni-Nigeria è al centro di altri filoni d’inchiesta aperti a Milano, su un presunto complotto ai danni proprio dei pm che indagavano su quei fatti, a partire dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. Ci sono, infine, sei persone accusate di calunnia, sempre in relazione a fatti legati alla multinazionale. Mentre lo stesso De Pasquale si ritrova indagato per rifiuto d’atto d’ufficio: non avrebbe portato prove a discarico degli imputati di quel processo.

Doveroso che i media, dunque, si occupino delle complesse vicende dell’azienda. E se è legittimo che l’Eni, se si sente diffamata dai giornali, quereli o chieda danni davanti a un tribunale, più anomala è la richiesta di sborsare somme enormi brevi manu. Con allegato avvertimento: in caso contrario, dicono i legali, «abbiamo già ricevuto mandato di agire a tutela della nostra assistita nelle sedi giudiziarie ritenute più opportune senza ulteriore preavviso».

Da Ecologia Politica Torino

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