Il ponte è un’aggressione al territorio. Combattiamolo
Da decenni, ciclicamente, il ponte sullo Stretto viene riproposto dalle forze politiche al governo come il sogno di sviluppo per Messina, per la Sicilia e il Sud. Il ponte viene spacciato come strumento per un futuro sfavillante a portata di mano, come il nuovo che viene e che ci traghetterà verso il progresso. Il ponte sullo stretto è un’aggressione al territorio. Tocca a noi combatterlo.
da Antudo
La falsa retorica dei posti di lavoro
Di tutte le enormità che il Ministro per le Infrastrutture Matteo Salvini continua a ripetere ad ogni intervista la più clamorosa è quella dei 120.000 posti di lavoro, un numero totalmente fuori scala. Bisognerebbe edificare quartieri interi, un’altra città, per ospitare anche solo una parte di questi. Non a caso Webuild ha parlato, qualche settimana fa, di 1600-1800 lavoratori diretti impegnati nella costruzione dell’infrastruttura a regime. Certo, poi ci sarebbe l’occupazione derivata dell’indotto, ma al momento i numeri sono non ben specificati e, comunque, molto distanti da quelli sbandierati.
A seguire, tra le enormità, c’è la storia del “ponte green”. A Salvini hanno detto che eliminando i traghetti si risparmierebbero centinaia di tonnellate di CO2 . Non gli hanno detto, però, a quanto ammonterebbero le emissioni di anidride carbonica durante l’apertura dei cantieri. Non gli hanno detto neanche che non è per nulla scontato che sparirebbero i traghetti. E qui, poverini, dovrebbero decidersi: o si perdono migliaia di posti di lavoro nella navigazione oppure le tonnellate di CO2 continueranno ad essere emesse. A meno che non si utilizzino mezzi più ecologici e, allora, addio ideologia del ponte come simbolo della modernità.
Ma queste sono solo le incongruenze più palesi, le più recenti in ordine di tempo. Migliaia di camion per il trasporto dei milioni di m³ di materiali di risulta in una delle zone più fragili del territorio, una valutazione costi-benefici mai fatta e che risulterebbe fortemente deficitaria, una campata unica stradale e ferroviaria di 3,3 Km mentre la più lunga attualmente esistente è di 1.410 m, di questo e altro si dovrebbe parlare. Andrebbero aggiunte, poi, le possibili alternative, ciò che con quella enorme mole di risorse pubbliche si potrebbe fare: scuole, ospedali, messa in sicurezza del territorio dal rischio idrogeologico, welfare. Tutte cose molto più utili per gli abitanti di un territorio che subisce ogni anno uno spopolamento progressivo impressionante.
Anche il più recente decreto, quello che resuscita definitivamente la Società Stretto di Messina Spa (la concessionaria per la progettazione e costruzione del Ponte), che riaffida a Webuild il progetto e la costruzione dell’opera, che individua una tempistica che stia apparentemente dentro quella annunciata da Salvini nelle dichiarazioni degli ultimi tempi, presenta tanti aspetti dubbi dal punto di vista giuridico e nel testo stesso prevede ulteriori aggiornamenti e aggiustamenti. Tutto vero, ma, in fondo, anche con queste considerazioni staremmo ancora dentro il dispositivo comunicativo imposto dai governi che nel tempo si sono succeduti e che hanno sempre trovato con loro la gran parte del quadro politico, degli ordini professionali, della comunicazione, delle organizzazioni sindacali.
Tutto vero, ma stando dentro questo confronto di idee non si dà conto della vera natura del ponte sullo Stretto e della politica delle grandi opere, del loro carattere estrattivo, del loro essere solo processi finalizzati a trasformare la discussione, la polemica politica, le azioni amministrative, in consenso e profitto.
Il futuro dello stretto è nelle nostre mani
Attraverso la politica delle grandi opere (di cui il ponte sullo Stretto appare come la manifestazione più paradigmatica) l’aggressione ai territori è direttamente guadagno per i soggetti che se ne fanno protagonisti. E’ il territorio che viene offerto al partito degli affari, è la natura che diventa oggetto di scambio, è il paesaggio che diviene merce da vendere.
Si tratta della creazione di un immaginario dietro cui non c’è nulla se non l’azione rapace di coloro che sono a capo della filiera, la creazione di un immaginario impossibile senza il contributo della comunicazione, senza la sottomissione dei professionisti del settore, senza l’acquiescenza della rappresentanza politica locale. Come nella più classica delle operazioni coloniali sono le classi dirigenti locali a doverne veicolare l’ideologia e in cambio di vantaggi corporativi devono rendersi disponibili a sacrificare il proprio territorio e i suoi abitanti.
Per fare tutto questo per il ponte sullo Stretto al momento non è neanche stato necessario procedere all’apertura dei cantieri (se si eccettuano le trivellazioni finalizzate al progetto preliminare). E’ tipico della politica delle grandi opere l’assenza dell’opera stessa o l’allungamento esponenziale dei tempi di costruzione. Il ponte sullo Stretto da questo punto di vista è paradigmatico, è la tempesta perfetta, l’emblema più clamoroso di questa politica: milioni di euro e carriere politiche senza la messa in opera di un mattone sull’altro. Non sarà sempre così. Saranno costretti ad aprire i cantieri, a sventrare la città, per dare sostanza al processo. Per loro l’importante è continuare. Per questo bisogna vincere definitivamente, bisogna sconfiggerli politicamente. Non c’è futuro possibile per i nostri territori senza la sconfitta dell’idea del ponte poiché questa serve a coprire ogni infamia (oggi l’autonomia differenziata). Per questo non bisogna solo resistere, ma reagire con forza alla loro aggressione. Non è uno scontro di idee. E’ l’unica possibilità di dare un futuro alle nostre comunità.
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