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L’inquinamento atmosferico da combustibili fossili causa il 20% di tutti i decessi

L’esposizione all’inquinamento atmosferico da combustibili fossili aumenta significativamente il rischio di ictus, malattie cardiache e polmonari, cancro e altri disturbi, causando oltre 8,7 milioni di morti premature all’anno.


Fonte: Natural Resources Defense Council – 19.11.2023


Se le conseguenze della combustione di combustibili fossili – come lo scioglimento dei ghiacciai, l’innalzamento dei mari e l’aumento della temperatura media globale – ci sembrano molto lontane o astratte, prendiamo almeno in considerazione l’atto essenziale del respirare. Un nuovo studio ha dimostrato che l’inquinamento atmosferico dovuto ai combustibili fossili è responsabile di quasi un decesso su cinque in tutto il mondo.

Gli scienziati conoscono da anni gli impatti mortali della combustione di combustibili fossili, ma uno studio peer-reviewed pubblicato su Environmental Research afferma che che il numero di morti a livello globale sia più che raddoppiato rispetto alle stime precedenti. Secondo la ricerca, l’esposizione al particolato fine, o PM 2.5, derivante dalla combustione di combustibili fossili è stata responsabile di circa 8,7 milioni di morti a livello globale nel 2018. Si tratta più o meno dello stesso numero di persone che vivono a New York o Londra. Per collocare questa crisi sanitaria in una prospettiva più ampia, l’inquinamento da combustibili fossili non sta solo incrementando la crisi climatica, ma uccide ogni anno più persone dell’HIV, della tubercolosi e della malaria messe insieme.

«Non ci rendiamo conto che l’inquinamento atmosferico è un killer invisibile», ha dichiarato al Guardian Neelu Tummala, medico otorinolaringoiatra presso la George Washington University School of Medicine and Health Sciences. «L’aria che respiriamo ha un impatto sulla salute di tutti, ma in particolare sulla salute dei bambini, degli anziani, di chi ha un reddito basso e delle persone di colore. Di solito, coloro che vivono nelle aree urbane subiscono gli impatti peggiori».

Il PM 2.5 è una particella sospesa nell’aria con un diametro massimo di 2,5 micron, ovvero circa un trentesimo della larghezza di un capello umano. Le particelle così microscopiche sono pericolose perché rimangono sospese nell’aria, vengono facilmente inalate e possono penetrare in profondità nei polmoni, entrare nel flusso sanguigno e danneggiare diversi organi.

I legami tra questo tipo di inquinamento e un’ampia gamma di gravi problemi di salute, come malattie cardiovascolari, cancro, danni ai tessuti, asma e altri disturbi respiratori, sono ben documentati. L’inalazione di livelli elevati di PM 2.5 è particolarmente pericolosa per i bambini piccoli, i cui organi e risposte immunitarie sono ancora in via di sviluppo e che respirano più aria – e quindi più inquinamento – in rapporto al loro peso corporeo rispetto agli adulti. L’esposizione all’inquinamento atmosferico ha anche contribuito alla sproporzione dei tassi di infezione e morte da COVID-19 tra le persone di colore negli Stati Uniti.

Il recente studio pubblicato su Environmental Research, redatto da un team dell’Università di Harvard, dell’Università di Birmingham e dell’Università di Leicester, è allarmante per diversi motivi. Gli 8,7 milioni di morti premature stimati ogni anno, ad esempio, non includono quelli causati dall’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico da ozono, o dallo smog, anch’esso causato dalla combustione di combustibili fossili. I calcoli relativi alle infezioni mortali delle vie respiratorie inferiori nei bambini sotto i cinque anni, sono limitati ai paesi a reddito più elevato in Europa e Nord e Sud America, dove tali casi si manifestano con molto meno frequenza.

Complessivamente, questo tipo di inquinamento ha avuto il maggiore impatto sulle popolazioni di Cina e India, per un totale di quasi cinque milioni di morti premature solo in questi due Paesi. Altre aree duramente colpite sono state l’Europa occidentale, il sud-est asiatico e parti del Nord-Est e del Midwest degli Stati Uniti.

Nel 2015, i ricercatori del Global Burden of Disease avevano pubblicato quello che è stato descritto come «lo studio epidemiologico osservazionale più completo a livello mondiale fino ad oggi», che aveva calcolato il numero di decessi annuali dovuti al PM 2.5 in 4,2 milioni. Non solo questo numero è meno della metà della nuova stima, ma sia lo studio del 2015 che un altro recente rapporto globale hanno preso in considerazione l’inquinamento da particolato fine proveniente da tutte le fonti, mentre l’ultima ricerca si concentra esclusivamente sull’inquinamento da PM 2.5 derivante dalla combustione di combustibili fossili.

La combustione di carbone, benzina e diesel produce quantità significative di PM 2.5, tra cui la fuliggine, ma il particolato fine può provenire anche da fonti naturali come polvere, incendi, vulcani e spruzzi marini. «Volevamo valutare l’impatto sulla salute del PM 2.5 legato ai combustibili fossili, poiché queste fonti possono essere direttamente regolamentate», spiega l’autore principale dello studio, Karn Vohra, dottorando in salute ambientale e gestione del rischio presso l’Università di Birmingham in Inghilterra. “Altre fonti… sono più difficili da esaminare».

Studi precedenti si sono basati su osservazioni satellitari e di superficie per stimare i livelli globali di PM 2.5. Per distinguere il PM 2.5 dalle fonti di combustibili fossili, gli autori del nuovo studio hanno utilizzato GEOS-Chem, un modello computerizzato globale tridimensionale di chimica atmosferica alimentato dai dati meteorologici del Goddard Earth Observing System (GEOS) della NASA. In questo modello computerizzato sono stati inseriti i dati sulle emissioni regionali di combustibili fossili provenienti da fonti quali l’industria, le navi, gli aerei, i trasporti via terra, i generatori di riserva, il cherosene e le perforazioni di petrolio e gas. Per convalidare il loro modello, gli scienziati hanno poi confrontato i dati sulle emissioni con le osservazioni sul campo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Secondo Vohra, il team prevedeva che il loro approccio potenziato potesse produrre stime di mortalità più elevate. Tuttavia, quando vedemmo un raddoppio delle stime precedenti, disse: «siamo rimasti sorpresi».

Vohra e i suoi coautori attribuiscono il maggior numero della stima di decessi all’uso di una scala spaziale molto più precisa nell’analisi delle misure locali di inquinamento. Hanno inoltre inserito i dati più recenti sui pericoli dell’esposizione a lungo termine al PM 2.5 a basse concentrazioni.

La notizia che l’inquinamento atmosferico causato dai combustibili fossili uccide una persona su cinque ci fa riflettere non poco, ma come afferma Vohra, si tratta di qualcosa che possiamo concretamente modificare. Anche la riduzione di queste emissioni può fare una grande differenza. Per esempio, la Cina ha ridotto le emissioni di PM 2.5 derivanti dai combustibili fossili di circa il 44% tra il 2012 e il 2018. Così facendo, ha salvato circa 1,5 milioni di vite ogni anno.


Clara Chaisson

Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org

Fonte: Climate&Capitalism 19.11.2023

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