L’invasione di Gaza è anche una catastrofe climatica
Solo i primi 60 giorni di conflitto hanno provocato la dispersione nell’atmosfera terrestre di 281mila tonnellate di anidride carbonica
Rita Cantalino per Valori.it – 26 gennaio 2024
Immagine di copertina di © Abdallah ElHajj/iStockPhoto
La guerra a Gaza sta provocando più emissioni di CO2 di quanto potrebbero fare assieme, in un anno, le venti nazioni più vulnerabili di fronte agli impatti della crisi climatica. Da quando è cominciata l’offensiva di Israele sono stati uccisi oltre 25mila palestinesi, di cui più di 11mila bambini. I feriti sono circa 63mila. E in queste più di duemila ore di bombardamenti sono state scaricate sulla Striscia oltre 65mila tonnellate di esplosivo.
Ogni bomba, ogni missile, ogni attacco aereo o di terra ha però delle conseguenze ulteriori. Generano infatti emissioni climalteranti, che contribuiscono a esacerbare la crisi climatica. E quanto più è intensa l’offensiva, tanto maggiore è l’impatto che essa avrà sul nostro Pianeta.
Uno studio – intitolato “A Multitemporal Snapshot of Greenhouse Gas Emissions from the Israel-Gaza Conflict” e pubblicato in attesa di peer review sulla rivista scientifica Social Science Research Network – è stato diffuso in esclusiva dal quotidiano inglese The Guardian. E conferma il gigantesco impatto climatico dell’invasione israeliana.
Le emissioni generate dall’offensiva di Israele a Gaza
Solo i primi 60 giorni di conflitto hanno provocato la dispersione nell’atmosfera terrestre di 281mila tonnellate di anidride carbonica: è come se avessimo bruciato 150mila tonnellate di carbone. Il 99% delle emissioni generate da questa guerra è attribuibile proprio all’azione militare di Israele su Gaza. Altre 713 le tonnellate di CO2 sono legate invece al lancio di razzi da parte di Hamas.
Ma non è tutto: i dati tengono conto soltanto delle attività a più alto impatto in termini di emissioni di CO2. E non contabilizzano ad altri gas (come il metano). Il totale, pertanto, potrebbe essere significativamente sottostimati. Altri studi mostrano che se si guardasse all’intera catena di approvvigionamento bellica questi numeri sarebbero notevolmente superiori: almeno da cinque a otto volte.
Anche gli Stati Uniti hanno la propria quota di responsabilità. A inizio dicembre erano già 200 i cargo americani che avevano attraversato i cieli per consegnare a Israele più di 10mila tonnellate di attrezzature militari. Il loro spostamento ha comportato il consumo di 50 milioni di litri di carburante, con relative emissioni per 133mila tonnellate di CO2.
Quando la guerra finirà: una stima dei costi climatici della ricostruzione di Gaza
Dalle immagini satellitari diffuse il 1 dicembre sappiamo che a Gaza sono stati distrutti o danneggiati gravemente tra il 36% e il 45% degli edifici, con circa 100mila strutture colpite. Secondo lo studio rivelato dal Guardian, la ricostruzione genererà almeno 30 milioni di tonnellate di gas a effetto serra, che è l’equivalente di quanto, ogni anno, emette la Nuova Zelanda.
Il territorio della Striscia di Gaza risulta già particolarmente esposto agli effetti della crisi climatica: l’innalzamento del livello del mare erode la costa, mentre le ondate di caldo estremo e di siccità mettono in pericolo la sicurezza alimentare e le riserve idriche. Tre mesi di guerra hanno reso la situazione disastrosa. La maggior parte dei terreni agricoli è stata distrutta, l’acqua è inquinata e gli impatti del conflitto sulla salute potrebbero per decenni.
I ricercatori hanno provato a ricostruire le conseguenze climatiche di quanto accade nell’area dal 2007. La costruzione da parte di Hamas di 500 chilometri di tunnel usati per gli spostamenti ma anche per nascondere armi, ostaggi o miliziani, ha generato 176mila tonnellate di emissioni di gas ad effetto serra. I 65 chilometri di muro costruiti da Israele, con telecamere, sensori, recinzione, filo spinato e barriere di cemento, hanno generato 274mila tonnellate di emissioni di CO2.
Gli impatti climatici delle attività militari
Se le guerre fossero una nazione, sarebbero la quarta al mondo per le emissioni di CO2, dopo Stati Uniti, Cina e India. In generale è difficile quantificare gli impatti climatici generati dall’intera catena bellica: la comunicazione delle emissioni da parte di fonti militari è facoltativa e i dati a nostra disposizione sono molto parziali. Secondo una stima elaborata da un recente studio, il 5,5% delle emissioni globali di gas ad effetto serra generate dalle attività antropiche deriva da azioni militari. È più di quanto facciano l’intero settore aeronautico e navale messi insieme.
Né Israele né la Palestina hanno mai fornito dati all’Unfccc. La ricerca, tuttavia, ipotizza una stima dell’impronta di CO2 militare annuale di Israele sulla base del bilancio della difesa. Quasi 7 milioni di metri cubi di CO2 equivalente nel solo 2019, senza tener conto dei conflitti.
Gli impatti delle attività militari sono stati l’ennesimo grande assente della COP28
La Cop28 avrebbe potuto rappresentare una buona occasione per discutere degli impatti climatici delle azioni militari ma ancora una volta abbiamo sprecato un’occasione. La delegazione israeliana ha ribadito il suo contributo presentando soluzioni innovative per la cattura e lo stoccaggio della CO2. Per la raccolta dell’acqua. O ancora alternative vegetali alla carne. Nulla del conflitto in corso e delle attività militari che in questi anni hanno determinato impatti climatici è stato affrontato.
Del resto già nel 2022, in un’intervista su Forbes, Gideon Behar, inviato speciale per i cambiamenti climatici e la sostenibilità di Israele, aveva dichiarato che «il più grande contributo della nostra nazione alla crisi climatica è stato quello di risolverla con tecnologie innovative». Poco il contributo che, in questo senso, può fornire la popolazione palestinese, da quasi diciassette anni sotto assedio, senza libero accesso ad acqua o terra.
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