Bolzaneto, 117 medici chiedono la radiazione dall’Ordine dei medici torturatori
Come sempre due pesi e due misure, prescrizioni e garanzie di un sistema corporativo che salva spesso i suoi lavoranti, se poi sono al servizio dello Stato ancora meglio. Tutto quello che avvenne in quei giorni nel capoluogo ligure fu garantito da coperture in parte dichiarate pubblicamente, una pagina sempre aperta perché mai chiusa realmente. Lo schifo di questa storia rimane sempre il solito, non tanto che questi due personaggetti non abbiano fatto nemmeno un mese di carcere, ma che possano continuare a ricoprire il ruolo di dottori e continuare così ad avere l’autorizzazione per prestare servizio. Quando invece qualsiasi altro semplice povero cristo si troverebbe arrestato, licenziato in tronco e successivamente buttato in mezzo alla strada per molto meno. Forse si potrebbe fare qualcosa di più in merito a Toccafondi e Zaccardi, non solo sostenendo la petizione dei 117 medici ma lanciando una campagna che vada oltre una blanda sospensione.
Non si può però fare a meno di citare chi in questa storia ha deciso di sottrarsi a quel muro di omertà: l’infermiere Marco Poggi, che con la sua testimonianza decisiva denunciò il dottore in mimetica e le violenze all’interno della caserma/carcere. L’“infame” di Bolzaneto, così continuano a definirlo alcuni agenti della polizia penitenziaria: “Ho visto picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti presenti con schiaffi, pugni, calci, testate contro il muro. Picchiava la polizia di stato ma soprattutto il gruppo operativo mobile e il “nucleo traduzioni” della polizia penitenziaria. Gli dicevano: ‘Devi pisciare, vero?’ Una volta arrivati nell’androne del bagno, ho sentito che lo sottoponevano a un vero e proprio linciaggio…”.
Questo ed altro ancora ha denunciato Marco Poggi: “Delle violenze nelle strade di Genova c’erano le immagini, le foto, i filmati. Tutto è avvenuto alla luce del sole. A Bolzaneto, no. Le violenze, le torture si sono consumate dietro le mura di una caserma, in uno spazio chiuso e protetto, in un ambiente che prometteva impunità. Solo chi l’ha visto, poteva raccontarlo. Solo chi c’era poteva confermare che il racconto di quei ragazzi vittime delle violenze era autentico. Io ero tra quelli. Che dovevo fare allora? Dopo che sono tornato a casa da Genova, per giorni me ne sono stato zitto, anche con i miei. Io sono un pavido, dico sempre. Ma in quei giorni avevo come un dolore al petto, un sapore di amaro nella bocca quando ascoltavo il bla bla bla dei ministri, le menzogne, la noncuranza e infine le accuse contro quei ragazzi. Non ho studiato – l’ho detto – ma la mia famiglia mi ha insegnato il senso della giustizia. Non ho la fortuna di credere in Dio, ho la fortuna di credere in questa cosa – nella giustizia – e allora mi sono ripetuto che non potevo fare anch’io scena muta come stavano facendo tutti gli altri che erano con me, accanto a me e avevano visto che quel che io avevo visto”.
Nonostante le minacce ricevute (anche di morte) e il trasferimento “consigliato”, Marco Poggi ha continuato per sua strada. Per provocazione, per sfida e per orgoglio ha voluto titolare il suo libro “Io, l’infame di Bolzaneto”, raccogliendo al suo interno la sua testimonianza. Rivendicando quel codice deontologico che lo ha portato alla sua professione di infermiere e il conto pagato per le sue dichiarazioni Poggi afferma: “Beh! Un po’ sì, devo dirlo. Dopo la testimonianza, in carcere mi hanno consigliato – vivamente, per dire così – di lasciare il lavoro. Dicevano che quel posto per me non era più sicuro. Qualcuno si è divertito con la mia auto, rovinandomela. Qualche altro mi ha spedito la mia foto con su scritto: ‘Te la faremo pagare’. Il medico con la mimetica e gli anfibi mi ha denunciato per calunnia. Ma il giudice ha archiviato la mia posizione e con il lavoro mi sono arrangiato con contratti part-time in case di riposo per anziani. Oggi, anche se molti continuano a preoccuparsi della mia integrità più di quanto faccia solitamente la mia famiglia, sono tornato a lavorare in carcere, allo psichiatrico di Castelfranco Emilia. Mi faccio 160 chilometri al giorno, ma va bene così. Sono tutti gentili con me, l’infame di Bolzaneto”.
L’onestà nel suo caso dovrebbe contagiare anche l’Ordine dei Medici, invece pare che per i seviziatori di Bolzaneto ci sia sempre posto.
Qui il video di una delle poche interviste a Marco Poggi:
Di seguito il sunto di quello che furono le azioni contestate a Toccafondi e Zaccardi, tenendo conto che il dottore in mimetica collezionò in passato una condanna a un anno per omicidio colposo per la morte, nel 2002, di una detenuta rinchiusa nel carcere di Pontedecimo. Mentre un anno fa la dottoressa Zaccardi è tornata agli onori delle cronache cittadine per un pestaggio avvenuto da parte di una guardia a un detenuto recluso nel carcere di Marassi dove la Zaccardi è chiamata a rispondere per «omessa denuncia» ed è iscritta nel registro degli indagati per «omissioni e favoreggiamento» insieme ad altri cinque medici della asl Tre. Ma nonostante questo l’Ordine dei medici si tiene stretto i suoi seviziatori.
Giacomo Toccafondi, al tempo nominato dirigente sanitario all’interno della caserma di Bolzaneto, ha fatto parte di quanti hanno eseguito la disgustosa “accoglienza” tramite cui venivano fatti passare i fermati: insulti e violenze, l’obbligo di stare in piedi, tenere le braccia alzate sul muro e le gambe divaricate per ore. Obbligo di “flessioni pubbliche” e canzoni su Pinochet, spray urticante nelle celle, piercing strappati, attese di ore per un bagno. Emerse anche le condizioni difficili per le donne che in caso di mestruazioni non potevano ricevere assorbenti. Per 48 ore non erano distribuiti pasti regolari, acqua o presidi sanitari: solo qualche biscotto e panino.
Con l’arrivo di migliaia e migliaia di manifestanti per il G8, la caserma era stata destinata a diventare un carcere con annessa infermeria: è in questo contesto che entrerà in gioco il “dottore in mimetica”. Questo è stato il soprannome che tale viscido personaggio si è guadagnato dalle centinaia di manifestanti che finirono nella sua infermeria. Quell’evidente forma di potere che a Giacomo Toccafondi mancava nell’indossare un camice bianco, la volle trovare nella mimetica. Va ricordato che la gestione di quel carcere improvvisato venne affidata al reparto speciale della Polizia Penitenziaria, il Gruppo Operativo Mobile. La fama di questo corpo al tempo parlava già da sé, i violenti interventi all’interno delle carceri di Opera, Sassari, Trieste ne erano la prova. Indossata la divisa del Gom, il “dottore” Toccafondi si rese partecipe e istigatore di violenze di ogni tipo: abuso d’ufficio, violenza privata, lesioni personali, percosse, ingiurie, minacce, falso ideologico, abuso di autorità contro i detenuti. In una parola? Tortura.
In quella caserma le torture furono l’apice del libero sfogo alle peggiori inclinazioni di poliziotti e agenti penitenziari. Le testimonianze riconobbero in Giacomo Toccafondi il seviziatore di Bolzaneto, gli stessi giudici non poterono che constatare come questo individuo da responsabile dell’infermeria “anziché lenire la sofferenza delle vittime di altri reati, l’aggravò, agendo con particolare crudeltà su chi inerme e ferito, non era in grado di opporre alcuna difesa, subendo in profondità sia il danno fisico, che determina il dolore, sia quello psicologico dell’umiliazione causata dal riso dei suoi aguzzini”, agendo di fatto “con particolare crudeltà”. La caserma di Bolzaneto è stata definita come il luogo in cui “furono portate vittime in balia dei capricci di aguzzini, trascinate, umiliate, percosse, spesso già ferite, atterrite, infreddolite, affamate, assetate, sfinite dalla mancanza di sonno, preda dell’arbitrio aggressivo e violento”.
Toccafondi era già stato salvato dalla prescrizione assieme ad altri 43 condannati (funzionari, agenti, ufficiali dell’Arma, generali e guardie carcerarie, militari, medici) ed era uscito indenne dal processo d’Appello sulle violenze all’interno della caserma di Bolzaneto (dalla quale passarono 252 ragazzi/e fermati dopo gli scontri), ma era stato condannato a risarcire le vittime nel corso del 2013. Solo in seguito a quella condanna, nel marzo del 2014 fu licenziato dall’Ospedale Gallino di Pontedecimo in cui lavorava come chirurgo.
L’altra dottoressa è Marilena Zaccardi, in forza anche lei presso l’Asl 3 di Genova, che si è trovata a seguire in tutto e per tutto l’esempio di Toccafondi. Anche lei condannata definitivamente per “aver consentito o effettuato controlli di triage e di visita sottoponendo le persone a trattamento inumano e in violazione della dignità”, “costringendo persone di sesso femminile a stazionare nude in presenza di uomini oltre il tempo necessario e quindi sottoponendole a umiliazione fisica e morale”. “Per aver ingiuriato le persone visitate con espressioni di disprezzo e di scherno”, “per aver omesso o consentito l’omissione circa la visita di primo ingresso sull’individuazione di lesioni presenti sulle persone”, “per aver omesso o consentito l’omissione d’intervento sulle condizioni di sofferenza delle persone ristrette in condizioni di minorata difesa”. Prescritti i reati penali, la Zaccardi si trova a dover fare i conti con una condanna in sede civile, ben poca cosa se confrontata al fatto che fino ad oggi ha potuto ricoprire un ruolo di dirigente all’interno del carcere di Marassi, del penitenziario femminile di Pontedecimo.
Oltre alla Zaccardi e al dottor Toccafondi le condanne in Cassazione arrivarono anche perAldo Amenta e Adriana Mazzoleni di Alessandria e Sonia Sciandra di Sanremo. Solo quest’ultima ha subito una condanna a 2 anni e 2 mesi per falso ideologico sulle cartelle cliniche, mentre per gli altri è giunta la prescrizione a salvarli.
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