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Brasile 2014: le crepe del sistema

— Ernst Bloch, Il principio speranza

 

In occasione delle Olimpiadi di Beijing 2008, l’intellettuale francese Marc Perelman ha analizzato in un suo libro (intitolato senza possibilità di equivoco Sport barbaro) i legami tra i “grandi eventi” sportivi e gli equilibri di potere. Sin dalle Olimpiadi di Berlino del 1936, nonostante la scarsa strumentalizzazione da parte del Reich, e anzi proprio per questa ragione, l’apparente innocenza e neutralità dell’evento sportivo è sempre stata funzionale a mascherare l’altro volto, quello più brutale, dell’oppressione politica. È stato così anche per Messico ’68, dove le Olimpiadi si sono svolte senza intoppi nonostante il massacro di Piazza delle Tre Culture, complice l’intervento della presidenza americana del Comitato Olimpico. Ma anche per la Coppa del Mondo del 1978 in Argentina, dove la dittatura di Videla non ha attutito l’entusiasmo per la vittoria della nazionale argentina nello stesso stadio a pochi isolati dal quale gli oppositori del regime erano stati massacrati a colpi di motosega.

 

Per Perelman, le Olimpiadi di Pechino del 2008 potevano essere paragonate a quelle di Mosca del 1980 e, al netto della provocazione, a quelle di Berlino del 1936. In tutti questi casi quella che si è potuta vedere in atto era una imponente macchina ideologica di consenso intorno a presunti quanto astratti ideali sportivi, incarnati nelle retorica pacificatrice della “carta olimpica” e, ancora più materialmente, nella necessità di mostrare l’efficienza organizzativa – garanzia di “civiltà” del paese ospitante – del grande evento. In questo modo, l’innegabile attrattività della competizione sportiva serve da cosmesi, e anzi da giustificazione, per quello che la sua organizzazione comporta, incluso il dispiegamento di forze di polizia con numeri e spese da conflitto internazionale, la blindatura delle città e la loro trasformazione per l’occasione in vetrine per gli occhi stranieri e la sistematica e frenetica gentrificazione, dietro il paravento della riqualificazione urbana, delle aree più periferiche delle metropoli che ospitano gli eventi.

 

In un pamphlet scritto in occasione delle Olimpiadi di Londra del 2012, il giornalista e portavoce della curva inglese Mark Perryman illustrava come almeno a partire dagli anni ’80 le competizioni sportive internazionali siano a tal punto nelle mani di corporation come McDonald’s o Coca-Cola, tipicamente gli sponsor in grado di far fronte agli astronomici costi organizzativi, che il loro potere di ricatto nei confronti dei comitati sportivi è pressoché assoluto. Impossibile dunque sfuggire alla mercificazione dello sport mondiale: qualunque residuo di apprezzamento per il gesto atletico, per la cultura sportiva o per il gioco di squadra sono destinati a capitolare di fronte alla necessità di capitalizzarne e monetizzarne la fruizione. Non è un caso che le proporzioni faraoniche che raggiungono questi grandi eventi richiedano che le gare vengano disputate in un pugno di infrastrutture sportive all’interno delle due o tre principali città del paese ospitante, così da riuscire a gestire lo straordinario afflusso di persone in quelle poche settimane in cui si svolgono olimpiadi e mondiali. Risultato: l’intrattenimento sportivo viene di fatto sottratto agli strati sociali più popolari, che vivendo nelle periferie o addirittura nell’estrema provincia non possono sostenere i costi proibitivi dei biglietti né gli spostamenti e devono accontentarsi di vedere le gare in televisione, invasi nuovamente dagli sponsor.

 

D’altro canto, i dati a disposizione fanno crollare come un castello di carte anche la retorica politically correct secondo cui le città ospitanti non possono che trarre giovamento dalle opere di riqualificazione, a beneficio dell’intera collettività. A Londra, due anni fa, il tanto annunciato arricchimento collettivo proveniente dal turismo e dal rinnovamento delle infrastrutture è stato – dati alla mano – assolutamente impercettibile, mentre a pesare sull’altro piatto della bilancia è sempre la “ripulitura” dei quartieri popolari, che si risolve sistematicamente in uno strascico di speculazione cementificatrice e costrizione degli abitanti all’esodo verso le periferie più esterne, dietro la spinta dei costi dell’abitare gonfiati da un mercato immobiliare drogato. In Brasile, dove la situazione è ulteriormente aggravata dalle profondissime diseguaglianze sociali di un gigante economico ad avviamento lento, sono intervenute le ruspe a demolire le favelas e la polizia militare antisommossa a garantire quella che è stata definita la “pacificazione”, in modo da restituire intatto il modello di città-vetrina e da garantire il regolare svolgersi della Coppa. È in questo senso che il mondiale va inquadrato, al pari di tutti gli altri “grandi eventi”, nelle dinamiche di governo neoliberale dello spazio metropolitano. Nel suo ultimo libro sulle Città ribelli, David Harvey spiegava come lo spazio urbano abbia tradizionalmente rappresentato un luogo ideale per il reinvestimento di capitale, permettendo l’edificazione in aree da riqualificare e il dislocamento delle masse popolari che le abitano in modo da aumentarne il valore sul mercato immobiliare e ricavare profitto dalla futura vendita. Tuttavia, continuava Harvey, sono proprio le masse colpite da questa “distruzione creatrice”, nella misura in cui rivendicano il proprio diritto agli spazi urbani, a rappresentare delle crepe nel sistema. E le crepe, come cantava Leonard Cohen, sono ciò che permette alla luce di entrare.

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