CALCIO & CAPITALISMO: una riflessione critica dell’ Asd Aurora Vanchiglia
Un contributo e una riflessione critica dell’ Asd Aurora Vanchiglia sul mondo del calcio-impresa ai tempi del Coronavirus.
Quando nel Maggio del 2018 uscì l’opera “Bullshit Jobs” dell’etnologo David Graeber, professore della rinomata London School of Economics e uno dei fondatori del movimento “Occupy Wall Street”, sostenne la tesi che le professioni più redditizie del nuovo sistema capitalistico globale fossero, allo stesso tempo, quelle meno utili per il sostentamento di un ordine statale e sociale.
Dai consulenti aziendali ai gestori di fondi speculativi, i cosiddetti “Hedgefondsmanager”, nel corso degli ultimi 30 anni il capitalismo finanziario ha reso queste nuove classi dirigenti quelle più redditizie, nonostante non producano alcun bene materiale, e allo stesso tempo più potenti, data la loro influenza nelle decisioni politiche riguardanti soprattutto la sfera economica degli Stati Nazionali.
C’era, ahi noi, bisogno di una crisi sanitaria come quella attuale per riportare alla ribalta determinate critiche, riportate nell’opera di Graeber e per rimettere, anche se al momento solo molto superficialmente, in discussione alcune delle tante falle, come ad esempio l’accumulo di ricchezze sproporzionate da una parte e la mancanza di fondi per la sanità e la ricerca scientifica dall’altra, del pensiero neoliberale che, da 30 anni ormai, nelle sue più svariate sfaccettature, si erge a faro che illumina il percorso della storia.
Con il diffondersi del virus #Covid19 tra la popolazione mondiale, molte realtà, che fino a poco tempo prima potevano permettersi il lusso di poter vivere in un mondo parallelo, si trovano, oggi, a causa delle misure restrittive indette dai vari governi, in difficoltà a dover sospendere la propria attività, data la perdita di profitto che ne conseguirebbe.
Uno dei casi più eclatanti, dovuta alla sua popolarità, lo presenta il mondo del calcio. Il calcio, risulta essere un’attività fondamentale per garantire lo sviluppo e il benessere di uno Stato? Assolutamente no! A detta, però, delle varie federazioni calcistiche nazionali e internazionali, dei presidenti delle squadre e di molti altri protagonisti del mondo del pallone, la faccenda è molto più seria e complessa, da quando ormai è totalmente subordinato alle leggi del libero mercato.
C’è il concreto rischio che nel mondo del calcio, un’industria le cui 20 società più ricche hanno fatturato, nella stagione 2017/2018, un totale di 8,6 miliardi di euro di ricavi, possa scoppiare una bolla finanziaria con conseguenze drammatiche per chi, direttamente o indirettamente, è coinvolto. Specie se si guarda i mancati proventi dai diritti tv, nel caso le competizioni nazionali e internazionali non si potessero concludere.
A partire dagli anni 90, con l’ingresso e la conseguente conquista delle pay-tv del mondo dello sport, la mutazione genetica che ha subito il calcio, è stata quella di passare da rito collettivo animatore di passione popolare a complesso d’attività altamente razionalizzate e finalizzate alla produzione di utilità (Pippo Russo, L’invasione dell’ ultracalcio, Ombre Corte).
Non per nulla, con la trasformazione del calcio da passione ludica a fenomeno dall’elevato profilo industriale, le cui fondamenta poggiano sui diritti tv, le sponsorship, i ticketing, il merchandising e, soprattutto, capitanata da una classe dirigente che, nonostante non siano funzionali al gioco in quanto tale, dettano le regole tramite una struttura gerarchica che gli permette di guadagnare ingenti somme, si è potuto osservare anche un radicale cambiamento sia del concetto di gioco che del tifo, l’anima autentica di questo sport, oltre che principale fonte di guadagno.
Il tifoso che si sente, nel bene e nel male, attaccato da un legame indissolubile verso la propria squadra del cuore, è stato sostituito, in un contesto di mercato sempre più globalizzato e digitalizzato, da un consumatore sempre più fluido che, potendo accedere a molteplici canali di consumo nell’ambito dell’entertainment, aggiorna e modifica costantemente i propri gusti e le proprie preferenze.
Di conseguenza, il calcio giocato, dovendosi adattare alle richieste del tifoso-consumatore i cui desideri vengono incessantemente creati e veicolati dai mezzi di comunicazione, è stato snaturato della sua essenza facendo passare la competizione sportiva in secondo piano rispetto agli interessi che si celano dietro. Non meravigliano, infatti, le dichiarazioni di Andrea Agnelli, in una delle sue ultime interviste prima della sospensione del campionato, in cui espresse i suoi dubbi riguardo i parametri attuali per sancire la partecipazione di una squadra ad una competizione internazionale come la #ChampionsLeague. Sentendosi in dovere di salvare gli investimenti l’immagine del calcio italiano nel mondo, secondo il presidente della #Juventus, non sarebbero più sufficienti i meriti prettamente sportivi per far accedere una squadra alle più importanti competizioni calcistiche, ma andrebbero considerati tutta una serie di requisiti che permettano il corretto svolgimento del torneo secondo le attuali leggi del mercato, ovvero, facendo fruttare gli interessi di tutte le figure chiave del mondo del calcio, dalle televisioni agli sponsor, fino alle massime cariche delle istituzioni calcistiche.
Ad oggi, essendo i proventi dei diritti tv a garantire la sopravvivenza della maggior parte dei club, diventa subito chiaro chi sia ad avere il coltello dalla parte del manico per poter decidere le sorti dell’intero sistema, soprattutto, in questo momento con la crisi sanitaria in corso. Come, infatti, ricordava Karl Heinz #Rummenigge, poco prima dell’interruzione della #Bundesliga, se non si dovesse portare a termine l’ultima parte della stagione calcistica, molte leghe nazionali e la stessa Uefa si troveranno costrette a dover risarcire i broadcaster che, non potendo più trasmettere le partite, potrebbero decidere di interrompere i pagamenti sui diritti tv acquistati. Secondo uno studio interno della Liga spagnola, il danno stimato per le ultime partite di campionato non disputate salirebbe a 610 milioni, di cui ben 494 milioni dal mancato incasso della quota dei diritti televisivi.
Nel tentativo di correre ai ripari, prima che si abbatta la più grande crisi economica che si sia mai vista nel mondo del calcio, tra presidenti delle federazioni e dei club e i procuratori, si sono sentite le giustificazioni e le proposte tra le più assurde pur di portare a termine il campionato, il tutto condito da un’informazione sensazionalistica e obsoleta. C’è chi sostiene che bisogna giocare a porte chiuse, ovvero senza una componente principale di questo sport, i tifosi, per continuare a percepire almeno una parte proventi dei diritti tv o, addirittura, chi sostiene che sia un dovere portare a termine il campionato, per rispetto di tutte le vittime del Covid-19.
Provando ad arginare il più possibile le perdite, molte società hanno deciso di tagliare gli stipendi ai propri giocatori e dipendenti. Se per molti calciatori di #SerieA possa non pesare più di tanto dover rinunciare a una parte del proprio stipendio, per molti giocatori delle categorie inferiori, considerando che giocano in campionati che percepiscono molto meno dai diritti televisivi, sacrificare una parte del proprio stipendio avrebbe tutto un altro peso. La #FIGC è arrivata al punto di chiedere lo stato di crisi, pretendo dal governo che ci fosse la cassa integrazione anche per i calciatori professionisti che percepiscono uno stipendio inferiore ai 50 mila euro.
Per non parlare di tutt* i/le dipendenti che curano gli interessi delle società, sia in campo che fuori, e tutte quelle realtà che indirettamente dipendono dal calcio, come ad esempio le edicole, la cui fonte di guadagno principale sono le vendite di giornali e riviste sportive. Tra tagli e mancanza di introiti, per molte realtà extracalcistiche la sospensione metterà a repentaglio le loro esistenze, dato che non saranno sufficienti, nel caso ci fossero, gli ammortizzatori sociali per coprire le spese.
Infine, anche se non dipendono dagli introiti dei diritti tv, a rischiare l’estinzione saranno molti club dilettantistici. Generalmente, i ricavi del botteghino e quelli provenienti dagli sponsor di imprese locali, servono per coprire i costi variabili quali utenze, trasporti, servizio lavanderia, costi legati all’evento partita come il personale sanitario e così via. Senza queste entrate, oltre alle difficoltà economiche nel mantenere la struttura della società, come ad esempio la scuola calcio, con l’inadempienza del rimborso spese dei propri tesserati, molte squadre rischieranno di non potersi iscrivere al prossimo campionato.
L’ unica cosa certa è che lo stop causato dal virus sta dimostrando la fragilità di un sistema la cui sopravvivenza dipende da un meccanismo oscuro e perverso i cui interessi e prerogative non combaciano con quelli della collettività. Anche se la #Fifa ha emesso delle nuove regole per cercare di portare a termine i campionati, è evidente che dietro ci siano solo gli interessi di gruppi di potere parassitari, il cui fine è di mantenere l’attuale struttura piramidale di governance, per continuare a spremere il mondo del calcio.
In fondo, come sostiene sempre David Graeber, la questione dei soldi è tutta una questione di potere politico. Così come sarà una battaglia politica dover rivedere le leggi che governano l’attuale sistema economico-politico, anche il mondo del pallone dovrà confrontarsi con quelli che saranno i cambiamenti sociali post-Covid-19. Sarà da chiedersi se continuerà a essere traghettata da una classe dirigente parassitaria che continuerà a mantenere lo sport subordinato alle leggi del mercato capitalistico, nel quale anche i sogni più ottusi vengono lubrificati con fantasie a base di oro e di successi immediati, oppure, se ci sarà la possibilità di tentare una via alternativa, come ad esempio hanno intrapreso da un po’ di anni le realtà del calcio popolare, che propongono un modello di sport improntato secondo una logica democratica, di autorganizzazione su base volontaria, sull’azionariato popolare e forme di compartecipazione alle spese, in cui contano solo i valori dello sport, libero dai vincoli del capitale.
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