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Carceri statunitensi in rivolta e gli interessi delle compagnie private


I disordini in una prigione del Texas hanno portato alla luce i problemi del sistema carcerario. Sempre più duro verso gli immigrati e condizionato dagli interessi delle compagnie private

L’ultima rivolta nel penitenziario di Willacy, in Texas, è scoppiata la mattina del 20 febbraio, quando i detenuti si sono rifiutati di fare colazione e sono usciti in massa dai tendoni che ospitano i dormitori. Larry Spence, lo sceriffo della contea di Willacy, ha detto ai giornalisti che alcuni detenuti avevano coltelli da cucina e bastoni. I secondini hanno usato gas lacrimogeni per disperderli. Sul posto sono arrivati i Texas ranger, l’Fbi, la polizia di frontiera e le forze speciali. Ci sono voluti due giorni per fermare la rivolta. Poi le autorità carcerarie hanno spostato i 2.800 detenuti – soprattutto immigrati senza documenti condannati per reati minori – in altre strutture perché la rivolta aveva reso il centro “inabitabile”. Ma secondo alcuni rapporti il carcere di Willacy è inabitabile da molto tempo. La rivolta del 20 febbraio è la terza dall’estate del 2013, quando i detenuti protestarono perché le loro lamentele sulle condizioni dei bagni erano state ignorate. “Mi sento soffocare”, aveva detto in quell’occasione un prigioniero di nome Dante agli attivisti dell’American civil liberties union (Aclu), un’organizzazione che nel 2014 ha denunciato le pessime condizioni di vita nella struttura. Dante e altri detenuti raccontano che le tende sono “sporche e piene d’insetti”, mentre i bagni “si allagano e hanno un odore orribile”. L’Aclu ha scoperto anche che “i malati sono ignorati o curati in modo inadeguato”. Sembra che i disordini del 20 febbraio siano scoppiati proprio a causa della mancanza di assistenza sanitaria.

Pericolosa impunità

I fatti di Willacy fanno luce su un angolo oscuro della giustizia statunitense, in cui si sovrappongono il sistema carcerario federale, le compagnie private e l’agenzia governativa che si occupa dei flussi migratori. Il penitenziario di Willacy è una delle tredici strutture del Criminal alien requirement (Car), cioè carceri che ricadono sotto la giurisdizione del governo federale ma sono gestite da compagnie private. Sono penitenziari di seconda classe che ospitano circa 25mila immigrati condannati per due tipi di reati: droga e immigrazione clandestina. Dieci anni fa gli immigrati irregolari negli Stati Uniti raramente finivano in carcere, ma durante l’amministrazione Obama gli arresti sono notevolmente aumentati. Nel 2013 quasi un terzo di tutti i procedimenti penali federali negli Stati Uniti era legato all’attraversamento del confine. Oggi in Arizona, New Mexico e Texas la percentuale è dell’80 per cento. Le prigioni del Car sono diverse dalle strutture di detenzione gestite dal governo. La maggioranza dei prigionieri non ha la possibilità di contattare un avvocato. Visto che molti saranno espulsi dal paese dopo aver scontato la pena, non ricevono alcuni servizi garantiti di solito ai detenuti, come corsi di formazione o cure contro le tossicodipendenze.

“Queste rivolte sono una conseguenza del fatto che le autorità ignorano gli abusi che si verificano regolarmente nelle prigioni private”, spiega Carl Takei, un avvocato dell’Aclu. In un carcere di Pecos, in Texas, sono scoppiate varie rivolte tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009 dopo la morte di quattro detenuti nel giro di un anno. Tra di loro c’era Jesus Manuel Galindo, un immigrato morto per un attacco di epilessia mentre si trovava in isolamento.

Secondo gli attivisti dell’Aclu molti penitenziari gestiti da privati usano l’isolamento in modo eccessivo e indiscriminato. Secondo Takei, Willacy “è un esempio concreto di tutto quello che c’è di sbagliato nella criminalizzazione dell’immigrazione e nel rapporto tra le autorità carcerarie federali e le compagnie private”. In teoria Washington deve vigilare sulle condizioni nelle strutture del Car, ma gli attivisti dell’Aclu sostengono che le autorità hanno svolto un lavoro insufficiente nella sorveglianza e nell’individuazione delle responsabilità, “lasciando le aziende private in una posizione di pericolosa impunità”.

È impossibile sapere cosa sia veramente successo a Willacy, e non è chiaro quale sarà il futuro dei detenuti trasferiti. Takei e Libal sostengono che i funzionari della prigione hanno chiuso ogni canale di accesso alla struttura e ai prigionieri. Sembra che durante la rivolta i detenuti abbiano incendiato tre tende. “La gente perde la pazienza”, aveva detto Dante ai funzionari dell’Aclu nel 2013. “A volte è così frustrata che parla di bruciare le tende. Ma a che serve? Tanto poi le ricostruiscono”.


Zoë Carpenter, The Nation, Stati Uniti, traduzione a cura di Internazionale

 

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