Come guardare alla “Gente”? Una recensione del libro di Leonardo Bianchi
“Se populismo è l’attitudine della classe dirigente ad ascoltare i bisogni della gente; se anti-sistema significa mirare a introdurre un nuovo sistema, che rimuova vecchi privilegi e incrostazioni di potere; ebbene queste forze politiche meritano entrambe queste qualificazioni.” Parole e musica di Giuseppe Conte, bi-premier gialloverde, pronunciate nel discorso al Senato per ottenere la fiducia. Parole che riassumono in maniera perfetta il campo di tensione e di contesa intorno ai concetti di populismo e di popolo, ormai decisivi in ogni configurazione politica a livello globale, non solo in quelle occidentali, dove fondamentale è la capacità di essere portavoce dei bisogni della “gente”.
“La gente” (minimum fax, 2017) è anche il titolo del libro di Leonardo Bianchi, news editor di Vice Italia e collaboratore di molte altre testate. E’ un libro importante, incalzante, scorrevole, che ha il pregio di farci capire come siamo arrivati fino a qui. Dal movimento dei forconi alle campagne sulla legittima difesa, dall’emergere dei no-vax al ritorno della galassia ultracattolica nell’agone politico, Bianchi dipinge un affresco importante del “gentismo”, una delle cifre degli ultimi anni di storia politica italiana, il cui continuo scavare è esploso nel risultato deflagrante delle elezioni dello scorso 4 marzo.
Nella terza di copertina alla “gente” si fa riferimento intendendo le persone che hanno perso contatto con la realtà per inseguire i loro incubi privati. Una descrizione senza dubbio pregnante, che testimonia lo spaesamento e la crisi sociale ai tempi della concorrenza perpetua tra poveri e della morte di un senso collettivo a vantaggio di quello individuale. Una considerazione che a nostro avviso deve però essere integrata da una considerazione prettamente politica, la cui mancanza è forse l’unico limite del lavoro di Bianchi. Un punto di vista che ci impedisca di avere uno sguardo strettamente sociologico – e dunque immobile alla prova della pratica politica – su quanto si è mosso in questi anni.
Il nodo che emerge ad una lettura orientata all’azione politica del libro di Bianchi è come riuscire a scorporare l’adesione a punti di vista – bizzarri nella migliore delle ipotesi, autenticamente reazionari nella peggiore – dallo spirito di ribellione, che c’è ed evidente, contro una situazione politica percepita come ostile.
Certo, non è una missione facile. E’ il vecchio problema dell’ambivalenza, e della costruzione di pratiche politiche incisive in una fase animata da profonde contraddizioni. Una lente ci sembra adeguata anche nell’analisi sul che fare di fronte a questo governo, che indubbiamente parte legittimato a livello popolare, soprattutto per merito dell’astio diffuso nei confronti delle forze della stabilità, in particolare del Partito Democratico, ritenuto – a ragione! – principale responsabile della crisi economica, sociale e politica del nostro paese.
La coscienza, e la conseguente ostilità, da parte della “gente” dell’enorme potere delle grandi aziende e della grande finanza, forze agenti di una stabilità assassina come quella imposta da Mattarella ai gialloverdi, la dobbiamo bollare come deterministicamente reazionaria o possiamo immaginare che sia un campo di battaglia sul quale provare a costruire consenso?
In fin dei conti, quello che emerge dalla lettura de “La Gente”, al netto del ruolo di organizzazione criptofasciste nel provare a verticalizzare alcune espressioni di dissenso popolari, è una richiesta fortissima di decisionalità. Di poter contare ancora qualcosa, di poter prendere parola. L’utilizzo del concetto di sovranità da parte di Salvini e DiMaio è la risposta della nostra controparte ad una richiesta di potere, che prende la forma della delega in mancanza di una prospettiva differente sui territori.
Una richiesta di potere che si appoggia a forme di preferenza nazionale ( “prima gli Italiani!”) e di restaurazione della “fiducia nell’azione dello Stato” proprio perchè il dominio di forze lontane e potenti come i famigerati mercati ha spaesato, spiazzandole, svuotandole, precedenti forme di azione politica oggi non più adeguate. Se la fiducia nello Stato torna tema decisivo, ne deriva un’attenzione maniacale sui confini. Il caso di Goro descritto da Bianchi è l’esempio massimo della distorsione nel senso della guerra tra poveri (fomentata da ombrose figure come il leghista Naomo) di una condizione di fragilità e di oscillamento in mano a forze percepite come aliene, inafferrabili. Nessuna giustificazione va trovata ovviamente a casi di vero e proprio razzismo: ma quello che interessa è capire, aldilà dei fatti specifici di Goro, è come riuscire ad incanalare in maniera differente una rabbia sociale esistente spostandone gli obiettivi.
Ciò che sappiamo, ora che la questione migrante sembra quella decisiva, è che non sarà una teoria e una pratica “etica” dell’antirazzismo a esserci utile. Non sarà tirare la volata al Partito di Repubblica, che ora passato Minniti si riscopre per il valore della vita dei migranti, che ci permetterà di affermare un nuovo rapporto di forza. Parlare di business dell’accoglienza, dei soldi guadagnati sulla pelle dei migranti, dev’essere riferito a quanto succede nei magazzini, a quanto quotidianamente avviene nei campi di pomodoro dove ha perso la vita Soumaila.
Non avrà a che fare con marce incapaci di legare la linea del colore con quella dell’appartenenza di classe, ma con pratiche di rottura della linea del colore direttamente nel momento del rifiuto dello sfruttamento. Come l’antiberlusconismo fallì nel negare la dimensione sistemica della corruzione, personalizzandola di fronte all’evidente contrario e cadendo nella pratica politica di un frontismo democratico a priori che ci ha portato ai Renzi e ai Calenda, così un antirazzismo giocato tutto contro Salvini e DiMaio non ci servirà se non sarà all’attacco dei nodi che legano razza e capitale.
Come scrivevamo di recente, l’approccio di chi fa movimento in questa fase non può essere “contendere la gestione degli affari correnti alle forze della stabilità, ma piuttosto quello di politicizzare il mondo dei subalterni, dei vinti, degli sconfitti da quella stabilità assassina”. In parole semplici, possiamo permetterci di avere un approccio totalmente snobistico verso “gli ignoranti” o dobbiamo accettare, per quanto a fatica, il fatto che la situazione concreta ci parla di un’egemonia culturale di questo tipo e che quindi pone all’ordine del giorno il cinico ragionamento su come combatterla?
La questione non è solamente politica in senso stretto, ma è anche comunicativa. Salvini e DiMaio hanno vinto sopratutto la battaglia sui social, per quanto Salvini sia stato aiutato anche dalle tv berlusconiane nell’imporre il suo stile comunicativo (non a caso è partita da parte di Confalonieri una purga dei conduttori Mediaset che più hanno tirato la volata al leader leghista, permettendogli di esautorare Berlusconi dalla guida della coalizione). La stessa vittoria di Trump negli USA, ottenuta anche grazie alla capacità comunicativa delle forze della cosiddetta alt-right, mostra come questo tema rimanga di importanza capitale. La continuità dei cinguettii di Trump, impegnato in una campagna elettorale permanente come sembrano anche voler fare Salvini e diMaio con le quotidiane photo-opportunities e post virali su Facebook, mostrano come la politica sia sempre di più immagine, ma dall’altra parte anche volatilità, possibilità di commettere errori, di essere attaccati just-in-time.
Su questo abbiamo però un problema, che deriva dall’impossibilità di scadere sul livello dei nostri contendenti: la produzione di “fake news” non la possiamo combattere producendo allo stesso modo letture semplificate di processi politici che per essere attaccati necessitano di una maggiore profondità nella loro lettura. Più interessante potrebbe essere invece esplorare la possibilità di ribaltare il concetto stesso di fake news, attaccando il concetto di una verità assoluta che alcune notizie hanno rispetto ad altre.
Del resto, la ricognizione di Bianchi dei meccanismi di costruzione politica del consenso in Rete mostrano non solo la forza, ma anche la debolezza di legami freddi e volatili come quelli che caratterizzano i social networks. Come si combatte “La guerra dei meme”, come da titolo del testo di Alessandro Lolli, un libro importante su questi temi appena discussi? Forse è proprio su questo che ancora manchiamo di fronte alla ristrutturazione dell’ambito comunicativo sfruttata in maniera egregia dai nostri nuovi avversari, quelli che sono la nuova “Kasta” a dieci anni di distanza dal libro di Stella e Rizzo che è preso da Bianchi come punto di partenza storico della sua narrazione.
In sintesi, la demonizzazione del “populismo”, su cui gioca Conte per appropriarsi dell’identità di difensore dei poveri, di “avvocato del popolo” in fin dei conti fa dunque il gioco delle attuali forze di governo. Perchè negli ultimi anni “populismo” è stata soprattutto l’etichetta dispregiativa affibbiata a qualunque cosa si muovesse, in un senso o nell’altro, in un contesto dove l’immobilità totale era la garanzia del mantenimento della stabilità e dell’interesse generale. Muoversi appunto, mettersi in movimento: è questa la sfida che ci attende quando, in un modo o nell’altro, la cappa della stabilità a cui there is no alternative sembra essersi quanto meno incrinata.
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