HANNAH ARENDT di Margarethe Von Trotta, 2012
Non sappiamo se dietro la decisione di non fare uscire il film ci siano state solo valutazioni di tipo commerciale, o se ci sia stato dell’altro. Resta il fatto che una volta tanto che viene realizzato un film decente riguardo all’argomento Shoah, in Italia non si riesce a fare di meglio che confinarlo in poche sale, in orari limitati, in lingua originale, il lunedi e il martedi sera. Si fa cioè di tutto per scoraggiare la partecipazione. Ed è un peccato, visto che nonostante gli ostacoli, quasi ogni singola proiezione ha registrato il tutto esaurito. Senza star di richiamo, senza pubblicità, senza promesse di sorrisi e/o commozione a buon mercato.
Il film della Von Trotta si concentra su un periodo particolare nella vita di Hannah Arendt, quello in cui partecipò come inviata del New Yorker al processo che si tenne nel 1961 a Gerusalemme contro Adolf Eichmann, l’ufficiale delle SS responsabile dell’organizzazione logistica dei trasporti degli ebrei nei campi di concentramento. A dispetto delle aspettative, il film si svolge principalmente a New York, città nella quale Hannah Arendt si era trasferita nel 1940, in seguito all’occupazione tedesca di Parigi.
Quello che la regista tedesca ci mostra in questo film è innanzitutto l’intenso ritratto di una donna eccezionale, coraggiosa e controversa. La costruzione del personaggio si basa su un paio dei luoghi comuni con i quali la Arendt veniva all’epoca definita, ovvero il suo essere da un lato “estremamente intelligente”, e dall’altro il suo essere “priva di sentimenti”. Luoghi comuni, certo, ma in questo caso utilizzati per non scivolare nell’agiografia rendere il personaggio complesso e sfaccettato. In aggiunta a ciò, l’attenzione posta sugli aspetti più privati che pubblici della Arendt restituisce in modo credibile l’ambiente famigliare, culturale e sociale in cui era immersa l’autrice de Le origini del totalitarismo, ovvero la New York dei primissimi anni sessanta. E ciò nonostante la regista abbia deciso di girare praticamente ogni sequenza in interni (l’appartamento e l’università), diversamente dalle poche sequenze ambientate a Gerusalemme, che invece si svolgono spesso all’aperto.
La descrizione del carattere e degli affetti della protagonista non è comunque una scelta fine a sé stessa. Essa è il sostegno sul quale appoggiare le tesi contenute negli articoli che la Arendt scrisse sul processo ad Eichmann (in seguito pubblicati nel volume La banalità del male), che scatenarono una durissima reazione di sdegno e condanna, con tanto di pressioni dirette del Mossad sulla Arendt stessa affinché rinunciasse alla pubblicazione degli scritti. Ciò che in poche parole veniva (e viene tuttora) contestato alla Arendt è il fatto di avere da un lato definito Eichmann un mediocre, un semplice burocrate (e non una belva sanguinaria, come tutti si sarebbero aspettati); dall’altro di avere accusato i capi del consiglio ebraico di corresponsabilità nello sterminio. Tanto per capirci, un personaggio di rilievo come Claude Lanzmann, autore del film Shoah, ritiene La banalità del male “Una delle più colossali idiozie mai concepite” .
Tornando al film, dopo averci illustrato le varie reazioni suscitate dagli articoli sul New Yorker, e le sue ricadute sulla vita privata e professionale della protagonista, il racconto si conclude con l’incontro pubblico che Hannah Arendt tenne in università, messo in scena dalla Von Trotta come una sorta di arringa difensiva sulla validità delle tesi contenute nella Banalità del male, e sulla sua corretta interpretazione , pronunciata nel vano tentativo di recuperare il rispetto di tutto quel mondo accademico e intellettuale che ormai le aveva voltato le spalle.
Vi sono senza dubbio dei momenti all’interno del film che risultano un po’ appesantiti dall’intento pedagogico della regista, anche a causa dell’eccessiva “carica” richiesta alla recitazione dei protagonisti, ma nel complesso l’opera regge. Certo, lo stile è tutto fuorché sperimentale o anche solo innovativo. L’opera scorre leggera, grazie a un linguaggio cinematografico semplice, se si preferisce scontato; ma la regia è discreta, concentrata, asciutta. Quello che vediamo è cioè un film puramente narrativo, che ha però il pregio di raccontare una storia importante, in cui le attrici e gli attori sono eccellenti, i dialoghi ben scritti, la ricostruzione storica accurata e documentata. Anestetizzati sull’argomento Shoah dai tempi di Schindler’s List, gli spettatori si trovano così di fronte a un’opera che dopo vent’anni di detestabili polpettoni cinematografici e televisivi sullo sterminio, non si accontenta di sfiorare i sentimenti del pubblico, ma prova a stimolarne il pensiero. O quantomeno, bisogna dare atto a Margarethe Von Trotta di avere “osato” informare dell’esistenza di una pensatrice scomoda, le cui idee malgrado tutto continuano a essere fonte di dibattito e punto di riferimento per molti. Perché se è vero che si dovrebbe non solo ricordare, ma anche vedere, affrontare l’Olocausto (ed è alla luce di questo assunto che i film di Spielberg e Benigni ci avviliscono e scoraggiano), è altrettanto vero che ci intimorisce e sgomenta chi di questo argomento vorrebbe detenerne il monopolio.
Kino Glaz
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