Il business e la corruzione dell’antimafia in Sicilia
Parliamo qui dell’ennesimo presunto scandalo riguardante il conclamato, trasversale, “variegato” mondo dell’Antimafia siciliana: croce e delizia della cosiddetta “società civile” abitante i nostri territori. Partiamo dalla fine: tre giudici sotto inchiesta insieme ad alcuni “professionisti” (avvocati, consulenti, imprenditori); un palazzo di giustizia che dovrebbe essere il simbolo della lotta alle mafie, quello di Palermo, ancora una volta in preda alle convulsioni dovute al suo essere pienamente interno ai sommovimenti di potere e dunque sempre precario alla prova dello scontro endogeno tra interessi diversi e contrapposti.
Nello specifico. Già da settimane si vociferava di una presunta indagine (resa pubblica da Il Messaggero) della Procura di Caltanissetta rispetto ad alcune “anomalie” registrate nella gestione pubblica dei beni confiscati alla mafia; parliamo, per intenderci, di quella che alcuni giornalisti locali hanno definito la maggiore holding italiana composta da più di 1500 aziende confiscate (valore stimato intorno ai 30 miliardi di euro), case e terreni agricoli e beni mobili per un valore di svariati miliardi. Ebbene, il magistrato a capo del Servizio Misure Preventive del Tribunale di Palermo, altri due giudici, più vari storici amministratori , consulenti e liquidatori, sono oggi sotto inchiesta con varie accuse che vanno dalla corruzione all’induzione alla concussione passando per l’abuso di ufficio. Li si accusa di avere messo in piedi un sistema che, sfruttando l’assetto “fiduciario” del rapporto di “nomina” manageriale (non esistono criteri univoci per l’assegnazione di incarichi, infatti), ha fatto della fase della “confisca” del bene (prima che questo passi sotto l’egida politica dell’Agenzia nazionale e delle Agenzie regionali) un vero e proprio buisness capace di fruttare milioni di euro tra tangenti, stipendi, onorari per le consulenze, regalìe di vario genere. Insomma un sistema clientelare che, se non riguardasse l’attività di magistrati molto rinomati nel territorio palermitano, in molti non esiterebbero a chiamare mafioso. E questo sarebbe motivo di grande imbarazzo per tutto il mondo della giustizia siciliana e nazionale – le persone coinvolte sono ex membri del Csm, ex sottosegretari, ex prefetti. Quindi meglio provare a farlo passare mediaticamente come indagini su isolati casi di corruzione frutto della devianza di un magistrato, la Saguto, colpevole (presunta) di ingordigia nonostante mesi fa fosse etichettata come “nemica delle cosche” e quindi “a rischio” da una nota dei servizi segreti che identificava in lei un potenziale obiettivo delle criminalità organizzate. Oggi, invece, si delinea un quadro all’interno del quale, questa alta rappresentante delle istituzioni, si presenta a capo di un sistema organizzato atto a “spartire” beni e imprese a professionisti che già amministrano altre imprese confiscate o che, magari, erano già nei consigli di amministrazione delle stesse imprese prima che queste venissero sequestrate e confiscate. Con il risultato di creare un’enorme concentrazione di potere e capitali nelle mani di pochissimi noti. Questi, in cambio, hanno offerto per anni posti di lavoro come consulenti, liquidatori, curatori ad amici e parenti degli stessi giudici del Collegio palermitano incriminato.
A fronte di quella che alcuni cronisti locali definiscono “una bomba che fa tremare dalle fondamenta il Tribunale di Palermo” quali sono le reazioni sociali?
Come al solito Palermo si presenta di fronte questa vicenda con un duplice atteggiamento sociale: da un lato quelli della “scoperta dell’acqua calda”; dall’altro quelli indignati dal quel “malcostume” chiamato “corruzione”. I primi sono coloro i quali hanno sempre saputo come funziona il meccanismo della confisca e dell’affidamento da parte dei magistrati (meglio, dei giudici) che si occupano di simili questioni: costoro non sono né giornalisti illuminati né gli storici attivisti antimafia siciliani. Sono coloro i quali o per vicinanza, o per prossimità, o per internità, hanno conosciuto da vicino le sorti di questi beni vedendo rincorrersi sempre le stesse facce, sempre le stesse firme, sempre gli stessi interessi attorno i vari atti di confisca. Sono le persone che – o perché hanno interessi contrapposti, o che più comunemente guardano a queste dinamiche con indifferenza – hanno sempre saputo guardare alle potenzialità economiche di profitto generate dalla politica speciale chiamata “lotta alla mafia”. Ecco dunque un nuovo capitolo della serie “nei quartieri tutti sapevano come funziona il sistema”.
Dicevamo che poi ci sono quelli del “pessimo e deprecabile malcostume” ; è la cosiddetta “società civile” a parlare, in questo caso: quelli del “il problema non sta nel sistema ma nelle mele marce al suo interno”; sono coloro i quali santificano qualsiasi potente assuma un ruolo sulla carta opposto alla mafia e che poi, regolarmente, da eroi finiscono per diventare “traditori”. Si pensi al caso Montante, ex dirigente nisseno di Confindustria, imprenditore e professionista molto rinomato sul territorio siciliano, che proprio mentre, un anno fa, era in lizza come possibile nuovo presidente dell’Agenzia regionale per i beni confiscati (di nomina politica) viene coinvolto in un ‘indagine per associazione mafiosa (cui tutt’ora deve rispondere) nonostante fosse stato tra i promotori della politica del suo predecessore Ivan Lo Bello su codici etici antimafia e lotta al racket per gli iscritti a Confindustria. Ora è invece la volta della Saguto, integerrimo magistrato minacciato dalla mafia perché agli interessi di questa contrapponeva quelli…della sua cricca!!!
Ecco, appunto: gli interessi. La parola magica, il chiavistello che apre le porte alle analisi sul funzionamento reale della macchina di potere in Sicilia come nelle altre regioni è proprio quella di “interessi” : questi sono contrapposti, trasversali, apparentemente contraddittori; ma fanno tutti richiamo ad un’unica stella polare, un unico orizzonte: quello del profitto.
La storia regionale siciliana, quella dell’antimafia, e quella della politica territoriale (ma anche nazionale e internazionale) ci dice da ormai troppo tempo dell’inutilità di vecchie e artificiose dualità: lo stato opposto alla mafia, la giustizia opposta all’illegalità, le istituzioni opposte ai poteri informali. Interessi e profitto risiedono sempre tanto nell’uno quanto nell’altro dei campi retoricamente presentatici come contrapposti. Non rispondono a logiche di appartenenza morale o etica o metafisica. Rispondono alle logiche che semplicemente definiamo “capitaliste”. La corruzione, gli interessi, i profitti, le clientele: questo è il capitalismo e il suo locale funzionamento. Il capitalismo e le sue regole: formali e informali, legali o illegali. Ma è così che nella sua sostanza, si presenta dalle nostra parte. Tutto fa impresa; tutto fa business. Con buona pace di quelli delle mele marce.
Speriamo di avervi allietato con un racconto remake di tanti altri simili storie. Sappiamo bene che sono storie che riguardano il mondo “di sopra”, quello che nulla o poco ha da spartire con vite comuni e problemi quotidiani, con emergenze sociali e conflitti. Ma è una storia che un po’, per la carica di ironia intrinseca, continua a piacerci. Triste fine degli eroi…
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