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Il calcio ai tempi dei narcos

América de Cali

All’epoca la presenza dei narcos alle spalle delle società colombiane era diffusa, ma tre famiglie si distinsero come principali “benefattrici”. I risultati migliori in terra colombiana li ottennero sicuramente i fratelli Gonzalo e Miguel Rodriguez Orejuela, appartenenti al temuto cartello di Cali e dagli anni ’80 acerrimi rivali di Pablo Escobar. Tifosi sin da bambini delle squadre della loro città, tentarono prima di aggiudicarsi il Deportivo Cali ma ottenuto un veto alla scalata virarono sull’acquisto dell’América de Cali, di cui Miguel era un grande sostenitore. Il binomio fu inarrestabile: 8 volte campioni di Colombia (con tre secondi posti), e ottime prestazioni in Copa Libertadores dove raggiunsero tre finali tra l’85 e l’87 dalle quali uscirono sempre sconfitti. Fu senza dubbio il periodo più glorioso del club dei diavoli rossi, bruscamente interrotto nel 1995 quando gli USA attuarono nei confronti del club il Lista Clinton, uno strumento di pressione rivolto a tutte le aziende e gli individui che traevano profitto dal traffico di droga e che prevedeva l’applicazione di sanzioni che potevano arrivare all’embargo commerciale. Dopo l’annuncio, l’utilizzo dei conti bancari fu bloccato così come qualsiasi tipo di contratto di pubblicità con le aziende che desideravano sostenere il club.

Millionarios

Anche Bogota, negli anni del narcofutbol, ebbe il suo momento di gloria. I Millionarios, squadra dal glorioso passato (ospitò le gesta di Alfredo Di Stefano prima del suo passaggio al Real Madrid), entrò in una grave crisi economica e di risultati alla fine degli anni’ 70, ma già alla metà del decennio successivo riprese il suo cammino vincente. Dietro la rinascita del club c’era la mano di Gonzalo Rodriguez Gacha, braccio destro di Pablo Escobar e da lui nominato “ministro della guerra” del cartello di Medellín. Soprannominato “El Mexicano” per la sua passione per la civiltà azteca, nel 1998 fu inserito da Forbes nella lista degli uomini più ricchi del pianeta. La sua presidenza, leggendaria anche per i festini in cui ricopriva d’oro giornalisti, ultras, dirigenti e giocatori del Milionarios, fruttò due titoli nazionali nel bienno ’87-88, ma fu considerata un’onta da Fernando Gaitán, proprietario del club dal 2012 al 2015, che propose la rinuncia ai titoli conquistati sotto l’egida del capo mafia. Un presa di posizione che suscitò un gran vespaio tra i tifosi e gli ex giocatori del Millionarios e che è stata archiviata tra i vari tentativi di ripulire l’immagine del club dalle ingombranti ombre del passato.

Atlético Nacional

“Pablo ha sempre amato il calcio. Le sue prime scarpe furono da calcio, e morì in scarpe da calcio.” A confermare la passione viscerale del patron per il il futbol sono le parole dalla sorella Luz Maria nel documentario “Los dos Escobar”. Una passione che diventa fonte di investimento, soprattutto quando le banconote erano così tante, si dice, che contarle era diventato talmente difficile che ai suoi uomini non restava che pesarle. Riciclarle nel pallone, oltre che nelle varie attività benefiche a favore delle proprie comunità, era forse l’occasione migliore per far crescere i consensi intorno al suo personaggio in vista della realizzazione di un sogno mai celato: diventare presidente della Colombia. E così il “benefattore” Escobar fa costruire oltre 50 impianti nei barrios meno fortunati e sovvenziona centinaia di tornei per i ragazzi più poveri della città. Poi il grande salto, l’immissione di fiumi di denaro nella squadra di cui era tifoso l’Independiente Medellin e soprattutto nell’Atlético Nacional, per cui va pazzo il fratello Roberto. Iniziativa che permetterà ai verdolagas, che in poco più di trent’anni di storia avevano vinto tre campionato nazionali, di diventare la prima squadra colombiana a vincere la Copa Libertadores nel 1989, nonché sotto la guida del visionario Pacho Maturana a resistere per 119 minuti al grande Milan di Sacchi nella finale dell’Intercontinentale prima di soccombere al sinistro su punizione di Chicco Evani.

La Catedral

Nel 1991 Pablo Escobar per evitare l’estradizione negli Stati Uniti, trova un accordo con il governo colombiano. Si consegna, ma come ricompensa per il suo gesto ha il permesso di costruirsi una prigione, La Catedral, dove scontare la pena. Una struttura sfarzosa, dove ovviamente non manca un campo da calcio per organizzare amichevoli con i giocatori più rappresentativi del panorama colombiano, così come già faceva nell’Hacienda Napoles, il buen retiro della famiglia Escobar. Come ricorda il figlio nell’autobiografia “Il padrone del male”, non era raro veder comparire i giocatori della nazionale del tempo, come Renè Higuita (che pagò l’amicizia con Escobar con l’esclusione dai mondiali del ’94) o il centrocampista Leonel Alvarez, il quale – scrive Juan Pablo – dimostrava il suo gran temperamento in interventi decisi anche contro il padre, che apparentemente lasciava correre. Provvidenziale l’intervento di un uomo di fiducia di Pablo, che gli suggerì meno irruenza. “Gli occhi del patron ti stanno guardando male”. Pare che anche Diego Armando Maradona conobbe Escobar: “Fui portato in una prigione circondata da migliaia di guardie, tanto che temetti di essere in arresto. Il posto era simile ad un hotel di lusso. Mi presentarono ad un signore, El Patron. Io non leggevo i giornali e non guardavo la tv, non avevo idea di chi fosse. Lo incontrai in un ufficio, mi disse che amava il mio gioco e che si identificava in me, perché anche io avevo trionfato sulla povertà. Giocammo e ci divertimmo. La sera ci fu poi un party, con le più belle ragazze che ho mai visto nella mia vita. Tutto ciò in una prigione! Non ci potevo credere. La mattina seguente venni pagato e me ne andai”. Ad una delle varie iniziative di Escobar partecipò anche Óscar Pareja, all’epoca capitano del Deportivo Independiente Medellín. Il giocatore ricorda che durante il loro incontro Pablo Escobar gli chiese il motivo delle sue continue proteste verso la classe arbitrale. “Perché strilli sempre dietro agli arbitri? Li paghiamo noi…”. Le partite immancabilmente si vincevano, prima e oltre che sul campo, con le prove di forza offerte dai vari cartelli, che non lesinavano minacce ad arbitri e giocatori, fecevano esplodere bombe, pilotavano le scommesse. Proprio a seguito di un match giocato tra club controllati dai due cartelli rivali, il Deportivo Independiente Medellín e l’América de Cali, una rete annullata per fuorigioco alla compagine controllata da Escobar, costò la vita all’arbitro Alvaro Ortega, freddato con nove colpi di pistola dopo la gara di ritorno. Episodio che costrinse la federazione a fermare definitivamente la stagione.

I cafeteros

Negli anni del narcofútbol si verificò anche l’ascesa dei cafeteros, la nazionale colombiana. Tre partecipazioni mondiali consecutive (1990, 1994 e 1998, quando ancora il calcio colombiano sfruttò l’onda lunga di quel periodo storico), tre terzi ed un quarto posto in Copa America. Il 2 dicembre del 1993 Pablo Escobar fu ucciso dalla polizia colombiana dopo un inseguimento. Gli “impulsi” del narcofutbol di lì a poco sparirono e pochi anni più tardi anche il cartello di Cali venne smantellato. Ne seguì un periodo di caos che ebbe i suoi rimandi anche sul calcio e sulla nazionale che affrontò il mondiale USA del 1994 mentre il paese si trovava nel pieno delle violenze. E proprio a questo evento è legato il terribile omicidio che coinvolse l’altro Escobar, Andrés, il difensore della nazionale colombiana, colpevole di aver segnato l’autogol che valse l’eliminazione al primo turno del mondiale americano. Andrés venne raggiunto da una da una raffica di mitra nel parcheggio del bar Padua di Medellín da una guardia del corpo di due fratelli affiliati ai Los Pepes, acronimo che sta per “PErseguidos por Pablo EScobar”, alt>un gruppo paramilitare avverso al clan di Medelin, sostenuto sia dal governo colombiano che dagli americani con lo scopo di fare fuori Pablo Escobar. Le versioni sull’uccisione del leader “silenzioso” della nazionale colombiana sono diverse, ma quella più realistica parla di una discussione iniziata con insulti per via dell’autogol e finita nel peggiore dei modi.

Borja

La Colombia negli ultimi vent’anni pare abbia fatto dei passi importanti nella lotta al narcotraffico, seppur con costi sociali e umani altissimi. La nazionale di calcio è oggi una fucina di fenomeni e a Medellin, 27 anni dopo, l’Atletico Nacional è tornato ad alzare la Copa Libertadores. Un successo “pulito” che ha visto protagonista il pallone d’oro sudamericano Miguel Ángel Borja, attaccante colombiano nato nel 1993. Lo stesso anno della morte di Pablo Escobar.

Per Senza Soste, Orlando Santesidra

tratto dall’ edizione cartacea di Senza Soste n° 123 di Gennaio 2017

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