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IL CAPITALE UMANO di Paolo Virzì, Italia, 2014

Scriviamo queste righe sull’ultimo film di Paolo Virzì mentre La grande bellezza di Paolo Sorrentino, dopo avere vinto il Golden Globe, è ufficialmente entrato a far parte della cinquina di pellicole che concorreranno all’Oscar per il miglior film straniero. Lo precisiamo perchè sui maggiori quotidiani nazionali e su vari siti e blog consultabili in rete (specializzati e non) è cominciato improvvisamente a montare una sorta di tifo da stadio per il candidato italiano come se a febbraio a Los Angeles l’Italia dovesse giocare la finale della coppa del mondo di calcio. L’onda di questo becero e provinciale entusiasmo, di fatto funzionale a trasformare il possibile evento in  ennesima occasione per celebrare la sempre ritrovata unità nazionale, sta investendo di riflesso il cinema italiano nel suo complesso. In particolare, Il capitale umano di Virzì, uscito nelle sale da circa una settimana, viene sostanzialmente definito come capolavoro, ulteriore esempio di cinema italiano di qualità, di sinistra, impegnato, ma accessibile. La premessa è dunque giustificata dal fatto che in questo particolare momento, non unirsi al coro degli entusiasti sostenitori di un presunto nuovo grande “cinema italiano”, come in verità intendiamo fare, rischia di passare per una provocazione, mentre niente potrebbe interessarci di meno.

In prima linea, a spingere sul concetto di “capolavoro” applicato a Il capitale umano niente meno che Repubblica, il quotidiano-partito che del film ne ha prima tessuto le lodi con un’intervista di Natalia Aspesi al suo autore, e in seguito ne ha sottolineato la bellezza attraverso una recensione di Concita De Gregorio. Come se non bastasse, la stessa De Gregorio, ha poi ospitato Virzì nella sua trasmissione televisiva su raitre, in modo che anche i non lettori di Repubblica potessere scoprire l’esistenza del nuovo straordinario film italiano. A ruota, sono poi seguiti tutti gli altri (giusto per citare un nome, segnaliamo le brevi ma intense righe scritte da Gad Lerner sul suo blog). Ci siamo così chiesti: “Cosa ci sarà mai di così eccezionale ne Il capitale umano, da provocare tanta sponsorizzazione”? Siamo andati al cinema e in tutta sincerità non vi abbiamo trovato nulla di particolarmente rilevante, tanto sul piano del linguaggio cinematografico quanto su quello dei temi affrontati.L’incredibile fortuna critica del film, secondo noi risiede nel fatto che la pellicola, oltre a essere innegabilmente ben confezionata, risponde perfettamente ai bisogni di quella grossa fetta di pubblico moderatamente colto, moderatamente sensibile, moderatamente informato, ferocemente alla ricerca di conferme, che generalizzando un po’ potremmo identificare con la cosiddetta “società civile”. Quel pubblico, per intenderci, che non andrebbe mai al cinema a vedere un film dei fratelli Vanzina, di Neri Parenti e nemmeno di Dario Argento. Anche in questo bisogna dare atto a Virzì di avere senza dubbio centrato il bersaglio.

Onde evitare di allungare ulteriormente il brodo, tralasciamo gli innocui attacchi a Virzì partiti da Libero e da Il giornale, a sostegno dei politici brianzoli offesi dall’ambientazione scelta dal regista livornese (attacchi che altro non rappresentano se non l’altra faccia della stessa medaglia), e andiamo direttamente al film. Un immobiliarista sull’orlo del fallimento (Dino Ossola, interpretato da Fabrizio Bentivoglio) approfitta del fidanzamento della figlia Serena con il rampollo di un ricchissimo e spietato uomo d’affari (Giovanni Bernaschi, interpretato da Fabrizio Gifuni) per tentare il colpaccio: entrare con una quota di capitale in un fondo finanziario che promette guadagni da sogno. Da qui tutta una serie di intrecci fra le due famiglie, con relativi drammi e colpi di scena.

 

Secondo le parole dello stesso Virzì, all’origine della sua opera, tratta dall’omonimo romanzo di Stephan Amidon, ci sarebbe l’analogia fra la storia originale ambientata nel Connecticut e l’attuale condizione economica e sociale italiana: “Quei personaggi, quella vicenda, ci sono apparsi subito come emblematici di questo nostro momento, anche in Italia: la ricchezza che non trae origine dal lavoro, ma dalle più spregiudicate speculazioni finanziarie, le speranze mal riposte di elevazione sociale, l’ansia procurata dal denaro, una generazione di figli costretti a pagare il prezzo più alto in termini di felicità, a causa della spasmodica ambizione dei loro genitori, o della loro frustrazione”.

Nulla da eccepire. Il problema è la realizzazione in immagini di quanto scritto sopra. Intendiamoci, il film è ben girato e in alcuni casi anche ben interpretato. Le tensione è quasi sempre alta, e l’intreccio sceneggiato con cura. Insomma, Il capitale umano è senza dubbio un buon prodotto cinematografico. Il punto è che non è molto più di questo; certamente, non ci troviamo di fronte a un capolavoro. Intanto, alcune scene risultano quantomeno deboli, quando non addirittura irritanti. Ci riferiamo per esempio alla riunione del consiglio d’amministrazione del teatro che la moglie di Bernaschi (interpretata da Valeria Bruni-Tedeschi) vorrebbe fare rinascere, in cui tutti i partecipanti sono talmente stereotipati e improbabili da farci desiderare che  tutto sommato forse è meglio che il teatro resti chiuso; oppure alla scena dell’amplesso fra Valeria Bruni-Tedeschi e Luigi Lo Cascio, che si consuma nel corso della proiezione casalinga del dvd di Nostra signora dei turchi, riuscendo nella non difficile impresa di mortificare tanto la passione per il teatro del professore interpretato da Lo Cascio quanto Carmelo Bene, qui infatti banalmente utilizzato come paradigma dell’artista d’avanguardia, icona e rifugio, come pare suggerirci bonariamente Virzì, per falliti e pseudointellettuali.

Più in generale però, data la dichiarata ambizione del film di restituire allo spettatore un riflesso dell’Italia di oggi, quello di cui maggiormente si sente la mancanza ne Il capitale umano è la forza di affondare i colpi, quella crudeltà nelle descrizioni della società che in un lontano passato aveva reso unica la commedia all’italiana. Tutto il film è un continuo e costante lavoro ai fianchi, una lunga attesa del liberatorio pugno da KO, che però non arriva mai. E’ vero, tutti gli adulti alla fine risultano meschini, o quantomeno inadeguati al loro ruolo. Ma la realtà è molto più dura di quella mostrata da Virzì. Per riuscire a rendere il quadro più intenso, più profondo, più vero, per parlare di capolavoro del cinema serviva almeno una qualità di cui questo film è sprovvisto: il coraggio. Il coraggio di non fermarsi alla superficie delle cose, di svelare, a costo di risultare scomodi, e per una volta non concilianti o accomodanti. Perchè è una pia illusione quella di immaginare un possibile futuro riponendo ogni speranza nella presunta innocenza e umanità dei figli rispetto ai loro genitori. E’ un’illusione ed è un falso, ma è proprio questo che andrebbe mostrato. Perchè la verità, la crudele verità, è che per quei due giovani, in questa Italia non esiste alcun futuro. Ed è solo nella ribellione  a questo orrendo stato di cose che si può intravedere una speranza, con tutte le scomode conseguenze che ciò comporterebbe. Qui invece i figli traditi e letteralmente venduti dai loro squallidi genitori lasciano  intravedere una luce in fondo al tunnel  perché, almeno loro, si amano. Un po’ poco, ma quanto basta per far sì che il cerchio si chiuda: i cattivi, responsabili dello sfascio, si collocano nell’altro da sé,  gli speculatori di borsa e i genitori senza scrupoli; all’altro capo del filo i buoni, la parte positiva,  ovvero i figli abbandonati, le vittime “innocenti”. Sì, certo, di quei ragazzi immaginati da Virzì magari uno su mille ce la farà, ma gli altri 999? Dei “cretini”, direbbe Brunetta. Per un film che si vorrebbe capolavoro, troppo semplice cavarsela con i buoni sentimenti. I Monicelli e i Risi, da qualcuno impropriamente richiamati e citati come modelli, possedevano ben altra stoffa, e sapevano, loro sì, essere feroci. “Ho ucciso mio padre, mangiato carne umana, tremo di gioia” si spingeva a dire Pierre Clementi in Porcile di Pasolini. Sia chiaro, non è che si rimproveri a Paolo Virzì di non essere Pasolini, ma qualcosa di più della morale sulla forza dell’amore era lecito aspettarselo.

La sensazione che resta al termine della visione, è che in verità Virzì sia troppo distante dai problemi che mette in scena per essere davvero credibile. Il capitale umano ci mostra la deriva italiana proprio come la potrebbe raccontare un qualsiasi politicante del PD che si dichiari di sinistra, e viceversa. E se l’effetto consolatorio farà dormire per una notte il sonno dei giusti a buona parte degli spettatori, per la restante parte questo effetto non potrà che provocare una specie di nausea. Ci riesce allora più chiaro comprendere, alla luce di questo film, il motivo per cui nemmeno 2 mesi fa lo stesso Virzì, al festival del cinema di Torino, si espresse (con sorpresa di molti) con parole di profondo disprezzo nei confronti di Ken Loach, che nello stesso festival l’anno precedente aveva rifiutato di ritirare il premio conferitogli come gesto di solidarietà nei confronti dei giovani lavoratori licenziati dalla cooperativa che gestisce, fra le altre cose, il museo del cinema. Quel gesto, per quanto simbolico, apriva un piccolo squarcio di realtà, rovinava per un secondo la festa, e metteva per un istante in discussione i ruoli. Un gesto però intollerabile, perché i ruoli per Virzì, evidentemente, non vanno confusi. Va bene l’amore, ma il regista faccia il regista, il precario faccia il precario, il licenziato faccia il licenziato. E che nessuno rompa i coglioni, soprattutto al cinema.

 

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