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Iribar e l’ikurrina nel derby basco

Francisco Franco era morto da due settimane. Il giorno del derby, il mio Athletic Bilbao contro la Real Sociedad, con Inaxio Kortabarria tirammo fuori la ikurriña. La nostra bandiera era stata messa al bando. Ci eravamo sentiti baschi in clandestinità. Stavolta invece era lì, sotto gli occhi di tutti, in campo, e in campo c’ero anch’io, José Ángel Iribar.

Cinque dicembre del ’75. Noi due, i due capitani delle squadre basche, facemmo quel gesto. Fu la prima apparizione pubblica della bandiera. Pur di averne i colori nei nostri stadi, a volte i tifosi portavano dentro quella italiana. Verde, bianca, rossa. Non ci arrestarono, quel giorno, non ci processarono. Francisco Franco, durante gli anni del regime, aveva pure fatto cambiare nome alla squadra, con lui eravamo diventati l’Atlético. Ci spagnolizzò. Perdemmo 5-0, ma sono stati i cinque gol più belli ch’io abbia mai preso. Al processo di legalizzazione della ikurriña sento di aver contribuito anch’io. Eravamo affamati di libertà. La dittatura era finita. Due anni dopo al Camp Nou, per una partita contro il Barcellona, le tribune erano piene di centinaia di bandiere. Catalane e basche. Insieme. I colori della nostra autonomia, i colori della gioia. La felicità era dovunque. Sul prato, in tribuna, per le strade.

Sono stato nazionalista, nella mia terra nazionalismo significa da sempre autonomia, indipendenza, significa radicalismo, socialismo, marxismo. La izquierda. La politica mi interessava perché mi interessava la vita. La mia e quella di chi verrà dopo di me. E se davanti alla politica gli altri alzano le spalle, be’, peggio per loro. Portando quella bandiera in campo, diventai un mito per il popolo basco. Mi aveva molto colpito il processo di Burgos del ’70: in tribunale sedici militanti dell’Eta, sei furono condannati a morte. L’Eta aveva ucciso per la prima volta due anni prima. Molte città si sollevarono contro Franco per quella sentenza, così come l’opinione pubblica in Europa. Il regime commutò la pena in ergastoli. Ma nel ’75 arrivò una nuova condanna a morte per alcuni ragazzi dell’Eta, tra cui uno di Zarautz che conoscevo. Per tutto questo, qualche anno dopo, decisi di accettare. Dissi di sì alla candidatura che mi offrì Herri Batasuna, il partito di sinistra che si batteva per la creazione di uno stato socialista che avviasse un processo di indipendenza dei Paesi baschi dalla Spagna. Quella Spagna che in campo mi aveva dato il numero 1.

La porta è un luogo dove mi sono trovato sempre bene. E bene ho cercato di trattarla, provando a migliorarmi giorno dopo giorno. Guardavo tutte le immagini di calcio che cominciavano a essere trasmesse, ritagliavo tutte le foto dei portieri dai quotidiani e le studiavo. La mia è stata una terra di grandi portieri. Prima e dopo di me, sono stati tanti i baschi bravi. Il merito è della pioggia. E’ sempre stato il nostro vantaggio, sapevamo giocare sotto l’acqua, sotto il vento, in ogni condizione. Quelli del sud invece si perdevano. Due gocce d’acqua e non li vedevi più. Me li ricordo i cori dalla tribune: Iribar, Iribar, Iribar es cojonudo. Como Iribar no hay ninguno. Iribar ha gli attributi, come lui non c’è nessuno. Ho ammirato molto Edmundo che giocava in porta nello Zarautz e poi Benito Beitia dell’Atlético Madrid, perché anche loro erano ragazzi del popolo. In casa mia, dopo di me, erano arrivate quattro sorelle. Ero un privilegiato. Aiutavo mio padre nei campi solo d’estate. Non è che mi ammazzassi di fatica, se devo essere sincero. Sono cresciuto ascoltando i racconti su Zamora, Eizaguirre e Blasco, ma erano di un’altra epoca. La mia generazione è stata l’ultima che ha visto crescere i calciatori in strada, non si giocava solo a pallone, praticavamo più di uno sport, ed era forse la maniera migliore di capire il calcio, di sapere in anticipo dove sarebbe caduto il pallone, di guardare il calcio da un’altra prospettiva. Oggi i portieri saranno anche meglio allenati rispetto a quelli della mia generazione, ma non hanno mai giocato in strada, gli mancherà comunque un po’ di intuito.

Ho sempre preferito i portieri calmi a quelli matti. I matti rendevano tutti noi una macchietta. Imponevano un cliché, e la puzza di falso dei cliché si sente da laggiù, si sente dall’altra area di rigore. Fino a 15 anni ho giocato nel Salleko, la squadra del collegio dei frati francescani. Mi ero iscritto alla scuola professionale, studiavo da tornitore. Mi chiamavano El Chopo, il pioppo, e quel soprannome mi è rimasto addosso. Mi comprò il Baskonia, che a quei tempi giocava in serie B, e la Spagna si accorse di me quando eliminammo dalla Coppa l’Atlético Madrid. Mi volevano Real, Barcellona e Valencia, ma mio padre tifava per l’Athletic Bilbao, a mio padre un dispiacere non l’avrei dato mai. E firmai. Ho debuttato da titolare nel ’64 e non sono mai andato via. Nello stesso anno José Villalonga, il ct della Spagna, stava ricostruendo la squadra quasi da zero. Provò cinque portieri diversi in cinque partite diverse. Il quinto fui io, il sesto non ci fu. Io, basco purissimo, diventavo il portiere della nazionale. La storia, poi, si divertiva. Nel ’64 giocammo la finale degli Europei in casa contro l’Unione Sovietica, la squadra a cui 4 anni prima avevamo dato partita vinta a tavolino pur di non affrontarla, pur di non riconoscerle il ruolo di avversaria. Franco non ne voleva sapere, era una questione di legittimazione politica, ma stavolta in nome di un titolo europeo da festeggiare il governo chiuse non uno, ma due occhi. E se ne avesse avuti tre, avrebbe chiuso pure il terzo.

Lo stadio era pieno. Di là c’era Yashin. Mi emozionai. Il loro gol fu colpa mia. Meno male che vincemmo 2-1, la maglia di Yashin la conservo ancora.

E conservo pure quella di Zoff, la maglia che portava la sera in cui la Juventus batté il mio Athletic nella finale di Coppa Uefa. In Zoff mi rivedevo. Un tipo calmo come me. Sono stato il titolare ai Mondiali del ’66 e otto anni dopo ho battuto il record di presenze di Zamora. Ricardo è stato il più grande di tutti i tempi. Fu molto carino. Disse: “Meglio che il mio record sia nelle mani di Iribar”. Ho smesso il 31 maggio 1980, avevo già 37 anni, vennero in 40mila al San Mamés per dirmi addio, la bandiera stavolta era sul pennone. Fu deciso di devolvere l’incasso per la pubblicazione di un dizionario dello sport in lingua basca. Strinsi la mano al mio erede Arconada e alla folla urlai Grazie, davvero, grazie.

 

(Come per l’intera serie, le parole liberamente attribuite a José Ángel Iribar sono state ricostruite attraverso libri, interviste e altre fonti storiche, e sono tutte ispirate a fatti realmente accaduti)

Da Puliciclone

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