Je suis Badawi
La fustigazione è solo rinviata, per «motivi di salute». Ma la sentenza emessa contro Raif Badawi, arrestato e condannato per presunte offese alla religione, per oltraggio, crimini informatici e persino per aver disobbedito a suo padre, non è stata annullata. È ferma lì, sospesa, sempre in agguato.
Ieri sera è giunta una notizia confortante. Re Abdullah ha inviato il caso all’esame della Corte Suprema per una eventuale revisione della sentenza. Vedremo se cambierà qualcosa. Ci piace però pensare che abbiano pesato su Riyadh le pressioni di ong ed istituzioni umanitarie internazionali, a partire dalla campagna di Amnesty a sostegno del blogger saudita. Pressioni invece mai arrivate, in modo serio, dalla ipocrita leadership politica occidentale, pronta a riunirsi a Parigi per difendere il diritto di espressione di Charlie Hebdo, devastato dal sanguinoso attacco di al Qaeda, e che resta in silenzio se le violazioni di diritti fondamentali le compiono i regimi «alleati», che fanno i «nostri» interessi.
Come la «moderata» Arabia saudita, alleata di ferro dell’Amministrazione Usa in Medio Oriente, morbida verso Israele, generosa nell’acquisto per decine di miliardi di dollari di armi americane ed europee e che ora, opponendosi ad una riduzione della produzione di petrolio, ci garantisce il barile di greggio sotto i 50 dollari.
Inutile affidarsi alla Corte Suprema saudita. Se l’attenzione internazionale calerà nei prossimi giorni, Raif Badawi potrebbe scontarla tutta la sentenza: 10 anni di carcere, una multa di un milione di riyal (266mila dollari) e mille frustate: 50 ogni venerdì in pubblico a Gedda, all’esterno della moschea di al Jafali.
Il blogger dopo le prime frustate ricevute il 9 gennaio era apparso particolarmente provato, non solo fisicamente. La moglie, Ensaf Haidar, rifugiata politica in Canada, da giorni denunciava la gravità delle sue condizioni. «Prova molto dolore – aveva riferito – sta male, sono sicura che non sarà in grado di resistere a una seconda serie di frustate».
Quando Badawi ieri è stato trasferito dalla sua cella alla clinica del carcere per un controllo, il medico ha accertato che le lacerazioni causate dalle prime frustate non si erano ancora cicatrizzate e che il detenuto non avrebbe potuto sopportarne altre. Quindi ha indicato che la seconda razione sia rinviata almeno di una settimana (sic). Come medico doveva opporsi con forza a questa forma di punizione corporale ma nell’Arabia saudita riverita e protetta dalle democrazie occidentali, anche chi per mandato se non per vocazione dovrebbe proteggere la vita umana, finisce per avallare crimini orrendi.
«Questo rinvio per motivi di salute mostra la profonda brutalità di questa punizione e ne sottolinea anche l’oltraggiosa inumanità. L’idea che a Badawi sia concesso di riprendersi in modo da poter soffrire di nuovo è macabra e vergognosa», commenta con amarezza Said Boumedouha, vicedirettore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty.
Quella di Raif Badawi, è la storia di un 30enne padre di tre figli, coraggioso, che non ha temuto di sfidare la monarchia e le gerarchie religiose. Un giovane amante della letteratura, araba e internazionale. Passione, raccontano gli amici, nata dal desiderio di apprendere ciò che non gli aveva permesso il suo non elevato livello di istruzione. Ma anche fermamente convinto del diritto alla libertà in tutte le sue forme, per i popoli e per l’individuo, per gli uomini come per le donne. Attraverso il suo sito «Liberali dell’Arabia Saudita», fondato nel 2008, ha denunciato un sistema in cui è proibito tutto: dalla guida per le donne – due attiviste nelle scorse settimane sono state arrestate e condannate perché erano al volante – fino alla formazione di associazioni e partiti, alle elezioni, alle manifestazioni pubbliche.
L’assemblea della shura è solo un finto parlamento nelle mani dei regnanti Saud. Ma si commetterebbe un errore a pensare a Raif Badawi solo come un attivista dei diritti della persona, impegnato contro un sistema religioso ritenuto insopportabile, asfissiante, da gran parte degli stessi musulmani. In realtà la condanna per apostasia e offese all’Islam copre un «reato» ben più grave commesso da Badawi: ha osato dire, nel suo e in altri siti, che l’Università Islamica «Imam Muhammad ibn Saud» di Riyadh è un laboratorio del wahabismo più radicale che spinge tanti giovani sauditi ad abbracciare il jihadismo armato. Troppo per un regime che da un lato afferma di combattere al Qaeda e lo Stato islamico e poi lascia che tanti dei suoi ricchi cittadini versino generosi finanziamenti che, per varie strade, arrivano proprio a quei gruppi.
Arrestato nel giugno 2012, da allora Badawi si trova nel carcere di Briman, a Gedda, dove sconta una condanna a 15 anni anche il suo avvocato e attivista Waleed Abu al-Khair. Sotto la pressione di Amnesty e di altre ong internazionali, la Corte Suprema saudita potrebbe rivedere la sentenza.
Ma è solo un’ipotesi. In ogni caso la vicenda di Raif Badawi deve servire a portare alla luce i tanti altri casi di cittadini sbattuti in galera per anni non per aver offeso l’Islam, come viene detto in via ufficiale, ma perché sfidano il sistema di potere oltre che di vita imposto dalla monarchia Saud. Persone come Fadhel al-Manasef, anch’egli blogger, processato più volte dal 2009, condannato a 15 anni di carcere e a pagare una sanzione 26mila dollari per aver «diffamato il Regno», scritto «articoli contro la sicurezza dello Stato» e dato alla stampa estera «una immagine distorta» dell’Arabia saudita. Con lui vanno ricordati Mohamed al-Qahtani e Abdullah al-Hamid, cofondatori dell’Associazione saudita per i Diritti civili e politici, e attivisti come Omar al-Said, Abdel Karim al Khodr, Abdulaziz al-Ghamdi e Abdulaziz al-Shubaily.
Un lungo elenco, all’ombra della legge antiterrorismo: chiunque sia sorpreso a minare «lo Stato o la società» potrà essere processato per attività terroristiche.
Michele Giorgio
per Il Manifesto
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