Quel cordone guerrafondaio in marcia contro l’umanità
Basti prendere i giornali nostrani di oggi. Ezio Mauro su Repubblica si esalta per i due milioni che cantano in coro la Marsigliese, mentre “cinquanta capi di Stato e di governo hanno davvero fatto di Parigi ieri la capitale di un mondo che ripudia la violenza e l’odio perchè vuole vivere difendendo ad ogni costo i diritti di tutti e di ciascuno e l’idea di libertà che è alla base del progetto di Europa”. Sul Fatto Quotidiano si racconta di quella banlieue che urla “Merci!” alla polizia e della stupore di vedere una scena in cui Netanyahu e Abu Mazen marciano insieme, superando le divisioni in nome di un qualcosa di più grande nel quale si commuove l’imperturbabile Lavrov, anch’egli presente nel cordone più potente del mondo..
Una marcia surreale quella di ieri, in una Parigi dove a detta di molti le metropolitane sembravano il set di Full Metal Jacket, dove alla massa enorme di persone scese in piazza con rabbia e rifiuto verso quanto successo (probabilmente in molti casi anche genuinamente, anche se va notato come non vi siano state prese di posizioni – tramite ad esempio striscioni o cartelli – contro le responsabilità delle potenze globali in quanto successo, come non ci sia stata una manifesta separazione di quel corteo dal cordone che lo precedeva) si univano le sciacallanti presenze istituzionali: Merkel, Renzi, Davutoglu, Lavrov, Netanyahu, Juncker, Samaras, Rajoy, Sarkozy, Keita per dirne alcuni, non certo simboli della democrazia e di un rispetto – financo in termini liberali – di diritti umani e libertà d’espressione.
Una prima fila che pur precedendolo, politicamente marciava rivolta contro quello stesso fiume umano che sfilava alle sue spalle, pronto a restringerne ancora più le libertà in nome di un’unità utile solo a potenziarne la forza dei progetti di dominazione e sfruttamento. Una marcia, quella di ieri, finalizzata a rompere la diffusa opposizione ai bagni di sangue derivante dal fallimento della war on terror bushista e che già si sfrega le mani per aver riconquistato una legittimazione pubblica come quella assicurata dalla piazza parigina di ieri, dove i potenti della terra hanno fatto a gara per divenire Charlie, in modo da superare tutta d’un colpo la crisi di rappresentatività di cui soffrivano grazie agli effetti della crisi economica globale.
Ma può chi ha approvato leggi contro l’aborto come la Gallardon in Spagna essere Charlie? Può chi ha il record di giornalisti incarcerati nel 2014 come la Turchia essere Charlie? Può il Sarkozy delle banlieue dove vive la “racaille” (la feccia) essere Charlie? Può un macellaio sociale come Samaras essere Charlie? Possono essere Lavrov e Poroshenko, impegnati nella mattanza ucraina, essere Charlie? Viene qualche dubbio sul fatto che essere Charlie in questo contesto sia un qualcosa di meritevole!
Tornando ai nostri media, quella di oggi è stata una narrazione imperniata sull’Occidente elevato a campione della libertà, considerazione che fa a pugni con diversi articoli presenti all’interno dei quotidiani, dove si narra ad esempio della volontà di rivedere l’accordo di Schengen sulla libera circolazione in Europa, ovviamente a livello restrittivo; fa sorridere che addirittura Alfano faccia la figura del “moderato” mentre i suoi corrispettivi Fernandez Diaz e Cazeneuve spingono per riconsiderare l’intesa del 1985 sulla libera circolazione nella UE. Intanto sul piatto si mettono misure che vanno da un più stretto controllo sulla Rete fino all’accessibilità immediata per i governi al PNR (ovvero al sistema di identificazione dei passeggeri da parte delle compagnie aeree), nonché l’impegno a sviluppare una oscura “controretorica” capace di arginare i successi comunicativi del Jihadismo.
Ancora più preoccupante, perchè agisce direttamente su terreni ancora più subdoli, è l’editoriale di Panebianco sul Corriere della Sera. Viene riproposta, dopo la solita paranoia sui pericoli connessi all’espansione dello Stato Islamico in cui mai ne viene affrontata una genealogia e soprattutto una riflessione sul sostegno di Usa, Arabia Saudita e Turchia ad esso, una narrazione tossica dello scontro di civiltà di cui riportiamo a mo’ di esempio questo passaggio:
“[..] dobbiamo credere che diversi musulmani viventi da tempo in Europa abbiano trovato il modo di fare convivere pragmaticamente la loro fede con le libertà occidentali. [..] [..] questi sono i musulmani «contaminati» dal nostro modo di vivere ma che non per questo rinunciano a pregare nella religione dei loro padri. Ma il guaio è che essi devono fare i conti con un’altra parte, numerosa, e anche assai bene finanziata dalle petro-monarchie e da altri regimi musulmani: gli «incontaminati», i portavoce di un islam puro, iper tradizionalista, antioccidentale, nelle varianti (fra loro antagoniste) wahabita e dei Fratelli musulmani. [..]
Tralasciando appunto l’analisi su chi foraggia e sostiene quelle petro-monarchie citate da Panebianco, viene da chiedersi quale sia la logica di un commento del genere: probabilmente da un lato tornare a elevare l’Occidente rispetto ad un mondo musulmano visto come naturalmente barbaro e inferiore, e quindi necessario di quella contaminazione che ricorda tanto la politica di assimilazione francese, la quale dimostra in questi giorni tutto il proprio fallimento.
Ma Panebianco non si ferma:
“La distinzione contaminati/ incontaminati qui utilizzata non ha nulla a che fare con quella, fasulla, fra islam moderato e immoderato. Chi usa quest’ultima divisione, in realtà, cade nella trappola concettuale in cui vogliono farlo cadere i fondamentalisti. Si finisce infatti, quasi sempre, per chiamare «moderato» un wahabita o un fratello musulmano solo perché prende le distanze dall’azione sanguinaria dei jihadisti del momento. Perdendo così di vista le continuità culturali, la comune lettura iper tradizionalista dei testi sacri.”
L’Islam sarebbe dunque tutto uguale, con unico retroterra e una linea obbligata che conduce ogni fedele direttamente dalla lettura del Corano al Jihadismo: a meno che non venga a contatto con l’Occidente e con il mondo libero, che nonostante sia stato la patria delle Crociate e dei Nazifascismi, nonché dove si sono verificati episodi stragistici ancora più efferati (do you remember Breivik?) continuano a godere di una superiorità morale che evidentemente, se ampliamo lo sguardo a tutto ciò che è successo nel mondo post-11/9 esiste solo nei pensieri maliziosi e guerrafondai dei gazzettieri nostrani.
Intanto le tattiche più sofisticate di “allarme sicurezza” tipiche della war on terror americana tornano in voga. Veniamo così a sapere da CIA e Mossad che il Vaticano è il prossimo obiettivo dell’Isis, anche se la situazione al momento “non presenta elementi concreti di rischio”. Ma quindi, c’è un rischio o non c’è un rischio? O c’è solo la volontà di creare il panico intorno a quanto avvenuto e a giustificare eventuali nuove limitazioni reali della libertà d’espressione?
Mai più che ora c’è la necessità di rifiutare l’arruolamento di cui si parlava in una nostra precedente presa di posizione, consci del fatto che l’urlo #JeSuisCharlie – come sarebbe stato auspicabile – non si tradurrà in una presa di posizione contro le nefandezze dei potenti globali. Bisognerà combattere ovunque, per quanto ci sarà possibile, una dura battaglia per indicare i veri responsabili della tragedia dell’Hebdo e per evitare che la retorica assassina dello scontro tra civiltà esca rafforzata da queste importantissime giornate.
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