Juventopoli e dinastia Agnelli: lo specchio del capitalismo italiota
E’ una banalità confortante e molto spesso falsa quella che afferma che “il pallone è lo specchio del paese”. E però quanto sta succedendo in casa Juve, al di là della telenovela familiare, è indicativo dell’identità del capitalismo italiano (e probabilmente non solo).
La Juventus è allo stesso tempo la squadra più amata e più odiata d’Italia, ma è soprattutto un’impresa economica in grado di estrarre fatturato dai milioni di tifosi sparsi in tutto il mondo. Che il calcio sia ormai niente più e niente meno che un enorme mercato dell’intrattenimento privo di ogni romanticismo d’antan è un’altra banalità che si può cogliere nella sempre maggiore disaffezione verso quello che era considerato lo “sport più bello del mondo”. La pandemia ha costituito poi un duro colpo per questo mercato e ha ampliato quelle che alcuni commentatori definiscono le “nuove guerre del calcio”. Cioè il progressivo farsi avanti di governi, fondi d’investimento e fondi che fanno riferimento ad autocrazie, se non a vere e proprie dittature, che acquistano club o pezzi di leghe professionistiche. I mondiali in Quatar con il loro strascico di corruzione ai massimi livelli delle istituzioni europee che sta emergendo in queste ore non sono altro che la rappresentazione plastica di quanto stiamo scrivendo.
La tardiva ammissione di Tardelli che “Maradona aveva ragione a ribellarsi alla Fifa” è la descrizione di un crespuscolo che si intuisce anche tra chi ha vissuto gli anni di un altro calcio altrettanto pieno di contraddizioni, ma anche dialettico e conteso.
Il calcio dei grandi club dunque oggi non è altro che il mix di due obbiettivi: quello di proporre/imporre un certo regime di discorso che si fonda sulla residua potenza narrativa di questo gioco in termini di visibilità e ampiezza del pubblico e estrarre il massimo profitto possibile da ogni suo aspetto: dal marketing, alla speculazione edilizia, ai diritti televisivi. Che il giocattolo sia sempre sulla soglia della rottura è evidente, perché l’estrema mercificazione del calcio lo rende alienante e incredibilmente noioso. Le grandi narrazioni sono quelle dei ricchi e vincenti, di imprese incarnate negli scarpini e le competizioni sportive hanno sempre di più il gusto stantio di una pièce teatrale vista troppo spesso. A poco servono le storielle su un’autoregolazione, su una sostenibilità dei club ecc… ecc… Queste sono panzane per nascondere l’evidenza di un mondo in cui a dominare è un capitalismo corsaro che sta spolpando il cadavere di un gioco che per decenni è stato in grado di far sognare generazioni di tifosi.
In Italia questo aspetto predatorio del capitalismo è particolarmente vero, ma non vale solo per il calcio. Infatti se si osserva la parabola della dinastia Agnelli negli ultimi decenni se ne può fare un vero è proprio “marchio di fabbrica”. Prima con la spoliazione dei gioielli di famiglia vedi l’esito Stellantis, poi con l’acquisto del gruppo Gedi, anche qui con un mix di orientamento forzato dell’opinione pubblica e estrazione del massimo profitto mettendo in liquidazione rami della società come L’Espresso (e adesso si vocifera forse anche Repubblica). La dinamica è del tutto simile a quella della Juventus: intendere l’informazione solo come una merce e uno strumento di dominio ha portato inevitabilmente ad un crollo nelle vendite e alla mancanza di qualsiasi capacità innovativa. Non che ci dispiaccia particolarmente, ma per certi versi è incredibile che il giornale-partito che più di altri è stato in grado negli ultimi decenni di condizionare l’opinione pubblica del paese stia facendo questa fine.
Questo è il capitalismo italiano, dalla sua cima, fino alle piccole e medie imprese distrettuali, una macchina di rapina ormai totalmente incapace di valorizzare un bel niente, di avere una qualsiasi forma di progetto che non sia il saccheggio della ricchezza sociale e la distruzione delle vite e dei territori. Lo “sport più bello del mondo” è solo una rappresentazione dello stato dell’arte, ma la realtà di chi vive giornalmente questo violento meccanismo di sfruttamento ed espropriazione nei territori, sui posti di lavoro e nei propri quartieri è ben peggiore. Quindi no, oggi il calcio non è lo specchio del paese, ma il riflesso di chi lo comanda.
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